La lunga impunità di Assad

/ 16.04.2018
di Paola Peduzzi

Il conflitto in Siria è iniziato sette anni fa, nel 2011, anno di primavere arabe che, viste con gli occhi di oggi, sembrano lontane anni luce: piazze piene che chiedono la libertà, chi se le ricorda più? Da allora ci sono stati 465 mila morti, secondo i dati dell’Onu, un milione di feriti (feriti da bombe, feriti per sempre), e dodici milioni di siriani, metà della popolazione del paese prima dell’inizio della crisi, sono scappati dalle loro case: per circa la metà sono usciti dalla Siria, per lo più accolti nei campi profughi nei paesi confinanti; gli altri vivono in altre parti del paese. 

Bashar el Assad è riuscito a sopravvivere a Damasco per tutto questo tempo, nonostante in Siria sia accaduto, nel frattempo, di tutto: l’ascesa dello Stato islamico, l’intervento di russi, iraniani, americani, alleati della regione, turchi, israeliani. Ognuno in forma diversa, in termini di soldati e continuità e obiettivi, ma tutti combattenti. L’esercito di Assad, dicono gli esperti, non sarebbe mai riuscito a resistere, per mancanza di mezzi e di uomini, senza l’appoggio di russi e iraniani, così come Assad stesso non sarebbe riuscito a rimanere a Damasco se tutto il resto del mondo non si fosse votato alla distrazione premeditata. Linee rosse tracciate e violate, Parlamenti inviperiti contro un’altra missione di guerra, quel grande bluff assadista-russo del combattere insieme «il terrorismo», per cui a un certo punto ci è parso anche plausibile – per molti necessario – scambiare informazioni sensibili con la Russia. Ora, dopo l’ultimo attacco chimico a Douma, è ripartita l’offensiva dei custodi delle linee rosse: gli americani, i francesi, gli inglesi (invero recalcitranti): come andrà a finire con Assad non si sa, nella grande distrazione collettiva ci eravamo abituati a considerare il rais siriano come una variabile ineliminabile. Ce lo teniamo, lo costringiamo a una riunificazione politica del popolo siriano: molti hanno tentato di dire che è molto difficile che chi è stato privato di tutto a causa di Assad abbia voglia di tentare una riappacificazione. Semmai il percorso sarebbe stato inverso: il rais elimina tutti gli oppositori, centimetro per centimetro, che è quello che voleva fare fin dall’inizio, quando la piazza siriana fu repressa nel sangue e nelle cancellerie europee si pensava che Assad fosse stato circuito dai suoi militari, dai suoi familiari, dal suo entourage, dagli alieni. Ma queste riflessioni sul futuro della Siria erano marginali: Assad resta lì, impariamo a farci i conti.

L’unico a non distrarsi è stato Israele. I raid dell’esercito israeliano vanno avanti da tempo: quando la minaccia è esistenziale, non hai tempo di guardare altrove. In Siria si sono ammassati generali e mezzi iraniani, il confine nord di Israele è tornato a essere pericolosissimo, e con pazienza strategica Israele ha cercato di eliminare i rischi più imminenti. Senza troppe domande e senza troppo clamore, ma cercando di negoziare con gli alleati stranieri la propria libertà di intervento: ancora in questi giorni, che la Russia ha denunciato con toni minacciosi l’ultimo blitz israeliano in Siria (sono morti soldati iraniani), gli esperti continuano a dire che c’è un patto di collaborazione stretta tra Mosca e Gerusalemme, o almeno c’è il patto di non scontrarsi direttamente, perché questo sì, sarebbe un disastro. I toni di Israele nei confronti di Damasco però sono notevolmente cambiati e ora che anche il presidente americano, Donald Trump, ha tolto il velo dalle alleanze sciagurate – «non potete stare con un Animale che Uccide con il Gas il suo popolo e si diverte a farlo!», ha twittato Trump: parlava ai russi, ma anche a tutti gli assadisti – è facile intuire perché Assad non si sente più tanto al sicuro: «angelo della morte», lo hanno definito alcuni ministri israeliani.

L’obiettivo in questa prima fase di uno scontro che sta prendendo una nuova forma è per tutti di evitare lo scontro tra grandi potenze: americani, russi, israeliani. Gli esperti dicono che nessuno di questi ha motivo di volere un confronto diretto, e le conseguenze sarebbero catastrofiche. Ma Assad? Lui è il dittatore simbolo dell’impunità, della distrazione collettiva, della possibilità di utilizzare armi chimiche (che non dovrebbero neppure esserci in Siria, erano state formalmente consegnate) senza grandi effetti sulla tenuta del proprio regime. E ora invece potremmo scoprire che, a parte l’Iran che combatte, attraverso Damasco, una battaglia ideologica di espansione dell’influenza sciita in tutta la regione mediorientale, nessuno davvero se la sente di morire per Assad.