Maggio, gli esami di fine ciclo sono ormai dietro l’angolo. Aumentano, nelle biblioteche pubbliche, le ragazze e i ragazzi chini su libri e appunti. Molti di loro – i liceali soprattutto – dovranno affrontare non solo la prova di maturità ma anche il patema legato alla scelta dell’università e della facoltà. Quale indirizzo appare più promettente, in grado di assicurare un futuro sul mercato del lavoro? E se proprio la strada imboccata non rispecchia le proprie inclinazioni/vocazioni, ci sarà almeno una gratifica in termini di sicurezza e di retribuzione? Domande ricorrenti, alle quali è difficile rispondere con suggerimenti precisi e persuasivi.
Per le generazioni nate negli anni 50 e 60 non era così. Parecchi studenti avevano un contratto in tasca ancor prima di terminare gli studi; per medici, avvocati, ingegneri, architetti la strada era tutta in discesa. Lo sviluppo della piazza finanziaria assorbiva come una spugna economisti e ragionieri, segretarie e sportellisti; anche la scuola e l’amministrazione pubblica offrivano numerose opportunità ai laureati dell’area umanistica; spesso, anzi, la domanda superava l’offerta, al punto di reclutare insegnanti nella vicina Italia.
Questa età dell’oro non è più tra noi. Oggi le matricole sanno che al termine del cammino potranno trovare porte chiuse, promesse vaghe e soprattutto una formula un tantino beffarda: «le faremo sapere». Lettere di risposta che spesso non arriveranno mai.
Cos’è successo? È successo che l’iter formativo non riesce più ad agganciarsi al mondo produttivo, la cui velocità di mutamento ha assunto una progressione mai conosciuta prima; un ciclone che nel suo turbinare falcia impieghi senza creare un solo posto. Si tratta, come ognuno sperimenta quotidianamente, di una dinamica innescata dallo sviluppo vertiginoso delle tecnologie digitali, un’azione combinata di intelligenza artificiale, reti telematiche, burotica e robotica che ha reso sempre più superfluo l’intervento umano.
Il percorso scolastico deve quindi fare i conti con questi scenari cangianti, una galassia di mansioni prive di un profilo preciso, mutevoli nel tempo, mai fissate una volta per tutte.
Lo smarrimento investe soprattutto l’area umanistica: le lingue antiche, la letteratura, la storia, l’archeologia, l’antropologia, la psicologia. Per queste discipline il datore di lavoro principale è sempre stato il settore pubblico e para-pubblico, con i diversi ordini di scuola, gli uffici dei beni culturali, gli archivi, i musei, le biblioteche, i centri di ricerca, l’informazione radio-televisiva. Ma ora anche qui il vento è cambiato: con il varo dei programmi di risparmio, anche lo Stato ha cessato di assumere. Meno risorse, meno personale.
Che fare allora nel campo della formazione? Qui si fronteggiano due concezioni educative. Per gli uni, la scuola deve rimanere uno spazio autonomo, un’isola di libertà non asservita alle leggi dell’economia; il sistema scolastico deve formare innanzitutto cittadini nel senso pieno del termine, e non semplici produttori/consumatori. Per gli altri è illusorio credere che la scuola possa ignorare le esigenze del mondo della produzione; la preparazione dev’essere funzionale, aderire alla domanda, se non lo fa diventa soltanto una fabbrica di disoccupati.
Si comprendono quindi perfettamente le incertezze, i dubbi, i dilemmi che assillano le famiglie nell’atto di decidere l’avvenire dei figli. E tuttavia è bene evitare di farsi troppo condizionare dai segnali che attualmente giungono dall’universo dei lavori. Una formazione solida e seria è sempre il miglior viatico, qualunque sia l’indirizzo scelto, sia esso scientifico o umanistico. La sapeva bene Francesco De Sanctis, chiamato nel 1856 ad insegnare letteratura italiana a tecnici ed ingegneri nel neocostituito Politecnico federale di Zurigo: «Secondo l’ordinamento dell’Università politecnica federale, questi studi non sono obbligatori. […] Il governo ve ne dà i mezzi: se non volete giovarvene, se non sentite come uomini l’obbligo morale di educare la vostra mente ed il vostro cuore, sia pure: vostro danno e vergogna. […] La letteratura è il culto della scienza, l’entusiasmo dell’arte, l’amore di ciò che è nobile, gentile, bello: e vi educa ad operare non solo per il guadagno che ne potete ritrarre, ma per esercitare per nobilitare la vostra intelligenza, per il trionfo di tutte le idee generose». Una lezione che vale ancora, nell’anno in cui cade il bicentenario della nascita dell’illustre critico letterario irpino.