«In questa situazione, la grande assente è la psiche. Si parla di dati, di numeri, di fatti oggettivi, ma della psiche nessuno», mi dice un analista e psicoterapeuta. Provo a ricostruire il suo ragionamento con la memoria che mi ritrovo e un po’ di libertà giornalistica: «L’io dell’individuo vive una fragilità innata nel suo rapporto con la natura, con l’ambiente esterno, la paura del contagio è atavica, poiché una minaccia alla sua integrità, (...) di fronte a un io debole, poco strutturato e poco consapevole, che si definisce in forme collettive, la paura diventa collettiva, poiché è nel collettivo che proiettiamo le nostre paure individuali, se il nostro io non è abbastanza solido». Mi scuserò con l’analista se ho interpretato in modo insufficiente il suo pensiero, ma nell’ipotesi di aver capito bene, quanto mi ha detto aiuta a capire che, sì, anche se il virus non è ancora nei nostri corpi è ben saldo nella nostra mente e immagino anche nel nostro corpo, come emozione. È il motivo per cui continuiamo a pensare al coronavirus.
I contagi sono ovviamente in crescita, secondo quanto afferma il Consiglio federale e i dati scientifici cui si affida (sennò non inaspriva le misure e le raccomandazioni), per cui la dimensione psichica assumerà un valore ancora più importante. Ciò significa che ognuno di noi, oltre alla dimensione clinica, sociale e professionale di questo Covid-19, deve integrare nella propria quotidianità quella dell’equilibrio mentale. Essere consapevoli che il nostro modo di reagire è figlio di un’eredità psichica dell’essere umano (sia con l’ansia, sia con la rimozione di una forte paura inconscia), può darci la possibilità di trascendere la dimensione collettiva e di trovare un equilibrio personale, che poi si estende alla collettività se sappiamo trasmetterlo al prossimo.
Certo, la cascata di notizie allarmanti o comunque inquietanti non si arresterà nelle prossime settimane, e qualcuno dirà che i media (e i social media) amplificano oltre misura i pericoli e l’ansia. Ma i media sono semplicemente lo strumento delle nostre proiezioni, sono le specchio delle nostre brame, con le cose più belle del reame e le cose più brutte. Vediamo quel che proiettiamo: crediamo di vedere rappresentata nel mondo esterno quella che in realtà è un’immagine nostra, interiore. Basta saperlo, per prendere le misure e capire come funzioniamo, anche nel nostro rapporto con i media e i social media, con le informazioni che ci giungono dal mondo esterno.
E certo, questa epidemia, ormai dichiarata pandemia, sarà una grande lezione per tutti. Non essendo che agli inizi, è impossibile immaginarsi quel che accadrà. Dobbiamo accontentarci di capire quel che giorno per giorno ci arriva sul piatto. Per esempio: che cosa significa vivere confinati nelle proprie mura di casa, come capita oggi ai nostri vicini lombardi e presto potrebbe capitare a noi? Ci sarà tempo. Ci distrarremo tuffandoci nello specchio delle nostre brame: lo smartphone. Ma emergeranno cose nuove, e remote: una semplicità di vita, quel fare i conti con noi stessi e chi ci sta attorno, magari anche sotto forma di conflitti con chi ci attornia e con noi stessi – «sarà comunque utile», mi dice l’analista citato all’inizio. Su scala globale, l’umanità farà i conti con una fragilità della globalizzazione di cui non eravamo consapevoli. L’economia può incepparsi per un nonnulla, quando le rotelle dell’ingranaggio si allontanano tanto da non incastrarsi più; i virus viaggiano in business in aereo o sulle navi da crociera, e se in passato ci volevano anni per diffondere il contagio, oggi bastano pochi giorni o settimane. Giusto il tempo per poter ragionare su come proteggersi.