La frustrazione dei commentatori economici

/ 04.12.2017
di Angelo Rossi

Di questi tempi, quello del commentatore economico è un mestiere poco entusiasmante. Non solo le tendenze di sviluppo non cambiano, ma i numeri che gli istituti, che studiano la congiuntura, non cessano di fornirci non sono tali da far montare il morale alle stelle. Il giornalista deve così ogni volta studiare con quali aggettivi si possa cambiare quello che passa il convento in un menù da ristorante con due o più stelle Michelin. Così qualche giorno fa ho potuto leggere, nella pagina economica di un quotidiano ticinese, che, nel 2018, l’economia svizzera conoscerà un’accelerazione del Pil e questo perché questo aggregato, l’anno prossimo, dovrebbe crescere dell’1,7% invece che dell’1% come pare crescerà quest’anno. Non esageriamo: nonostante il rialzo del tasso di crescita la nostra macchina economica continuerà a viaggiare in prima. È come se invece di viaggiare a 20 km orari il prossimo anno viaggiasse a 34. Un bel colpo di acceleratore, non c’è che dire! Dovrà però stare attenta a che non la superino le economie che si muovono con la bicicletta. 

La crescita dell’economia svizzera, nel 2018, non sarà dunque soddisfacente. Non è che possiamo fare molto per cambiare la tendenza. Abbiamo un franco forte e qualcuno che quando vuole sa fare la voce grossa potrebbe imporci di rivalutarlo anche di più di quanto non stia facendo il mercato internazionale delle divise. Di conseguenza le nostre aziende esportatrici, che sono poi quelle che assicurano la parte maggiore della crescita del Pil, anche mettendocela tutta, faranno fatica a combattere la concorrenza. Cosa fare? Gli economisti che si occupano di queste difficoltà rispondono in coro (così, di recente, anche l’Istituto di Ricerche economiche dell’USI): «Aumentiamo la produttività del lavoro!» 

Tuttavia, nell’immediato, non è che si possa fare molto se non cercando di tagliare sui costi del lavoro. Bella prospettiva per chi lavora! Capite perché uno che deve commentare questi fatti possa sentirsi frustrato? A più lungo termine vi sono gli scenari che promettono aiuto dalla digitalizzazione e dalla robotizzazione. Ma anche queste alternative comporteranno sacrifici per i lavoratori. È vero che gli studi disponibili – c’è un rapporto del Consiglio federale appena pubblicato – sostengono che la digitalizzazione creerà più posti di lavoro di quanti ne distruggerà. Purtroppo però questi studi raramente ci dicono in che rami (e quindi in che localizzazioni) si troveranno i posti che andranno persi e i posti che saranno creati. Quelli che si azzardano a fare qualche congettura ci dicono che a perdere saranno le professioni con qualifiche medie e a guadagnare quelle con qualifiche basse o molto elevate. Per gli impiegati di commercio che perderanno il loro posto, sostituiti dal computer – non sarà di nessun sollievo apprendere che il settore sanitario non sarà in grado di assumere il numero di aiuto-infermieri che gli servirebbe. Perché? Perché fare l’aiuto-infermiere presuppone una formazione completamente diversa da quella che possiede l’impiegato di commercio. 

Non è che il problema della riqualifica (ma con la digitalizzazione andremo incontro anche alle dequalifiche) sia nuovo. L’abbiamo già conosciuto negli anni Settanta e Ottanta del passato secolo quando il settore industriale si è ristrutturato. E già allora abbiamo visto che non è facile far cambiare professione a una persona, specie se non è più un lavoratore di primo pelo. 

Ho l’impressione che la ristrutturazione dei rami del terziario, che ancora ci sta davanti, comporterà problemi di mutamento delle qualifiche ancora più difficili da risolvere. Per fortuna queste trasformazioni (digitalizzazione, robotizzazione) si manifesteranno su un periodo di tempo abbastanza lungo (si parla di 10-15 anni) il che dovrebbe consentire anche alle autorità politiche – che, in democrazia, non possono muoversi che lentamente – di prendere i provvedimenti necessari. 

C’è anche chi suggerisce l’alternativa folle. In fondo la competitività dell’economia svizzera sarebbe più facile da difendere se non avessimo come divisa il franco, che continua a rivalutarsi. Perché non entriamo nella zona euro dove già ci sono paesi come la Germania, la Francia e l’Italia che figurano tra i maggiori nostri clienti? 

State tranquilli, cari lettori, chi la pensa così non ha voce in capitolo né presso il nostro ministro dell’economia, né presso quello degli esteri, né presso la nostra Banca nazionale.