Si dice che la cultura non è più quella di una volta. Neanche le stagioni sono quelle di una volta, il tempo meteo non assomiglia a quello degli anni Cinquanta, e neanche la famiglia; i figli e i padri non ne parliamo, i maestri e gli allievi sono molto cambiati, la scuola del Duemila non è più quella di De Amicis e di Pestalozzi, i giornali sono stravolti e il mondo in generale non è il mondo di un secolo fa o di mezzo secolo fa o di trent’anni fa. Non ci sono più la macchina da scrivere e la carta carbone, sono spariti i gettoni telefonici e anche le cabine, i bambini non portano più la banana in testa, gli uomini non girano più con il borsetto sottobraccio e nemmeno con l’autoradio estraibile in mano, il gel ha sostituito la brillantina e il bocchino è un oggetto d’altri tempi, il pennino e la stilografica sono cimeli per collezionisti, è quasi sparito il francobollo, un tempo si poteva fumare al cinema, a scuola, nei bar e persino in ospedale. Francesco Guccini, che non è più quello della Locomotiva (6), ha scritto qualche anno fa un paio di dizionari delle cose perdute (5- di stima) scavando nei bauli della memoria. Anche i bauli, ovviamente, non sono più quelli di una volta e tanto meno la memoria degli esseri umani, sconvolta dalla memoria digitale.
Per lo scrittore napoletano Raffaele La Capria (5½), che ha compiuto 95 anni in ottobre: «Senza memoria non siamo niente. Se non so chi sono stato non posso capire chi sono». E la letteratura? «La letteratura – dice La Capria – è la memoria delle nostre emozioni». Una bellissima definizione consegnata al numero 303 de «l’immaginazione», il mensile dell’editore Manni di Lecce fondato e diretto nel 1984 da Anna Grazia Doria. Anche le riviste non sono più quelle di una volta, ma alcune rimangono quel che erano, e tra queste c’è «l’immaginazione» (6-). Dove si possono leggere vere e proprie recensioni critiche (le recensioni sui giornali, ovvio, non sono più quelle di una volta), saggi, interviste. Come quella a La Capria, che gli amici, da Moravia a Parise, hanno sempre chiamato Dudù: «La creazione nasce dalla forza dell’immaginazione e crea chiare immagini significanti, fantastiche metafore conoscitive, invenzioni verbali illuminanti, un suo proprio linguaggio. La cattiva letteratura rassomiglia alla buona come l’ottone rassomiglia all’oro…». Bello, no? Bello. Quando pensa al suo modo di scrivere, La Capria immagina lo stile dell’anatra, che vediamo nuotare leggera sull’acqua ma ottiene quella leggerezza muovendo instancabilmente sott’acqua le zampette palmate.
Anche la vecchiaia non è più quella di una volta? Ascoltando quel che ne dice La Capria, la vecchiaia purtroppo è sempre uguale, e non è facile viverla con la leggerezza dell’anatra: «L’idea della morte diventa sempre meno astratta e a volte si tiene vicina e ti fa compagnia come una gatta. L’idea della morte ti accompagna insieme a quella delle persone care, che ci hanno voluto bene e che hai amato. Unito a loro il pensiero della morte diviene più familiare, lo accetti. Insomma ho un’accettazione vitale della vecchiaia».
Quella che aveva Gillo Dorfles, il critico d’arte, pittore, filosofo morto a Milano il 2 marzo scorso, poco prima di compiere 108 anni (che diviso il voto, 6, fa 18, l’età in cui Gillo ballava a Trieste in casa di Italo Svevo). Il segreto della vita, per Dorfles, era semplice: dormire, lavorare, mangiare, svegliarsi. Soprattutto svegliarsi, naturalmente. Non ci si sveglia più come una volta. Perché la prima cosa che si fa al risveglio, ancor prima di fare pipì e di bere il caffè, è correre a guardare le email, i WhatsApp, i social. «Non mi piace ricordare il passato, preferisco ricordare il presente e vorrei tanto ricordare il futuro, ovviamente», diceva Gillo. In effetti, la longevità si può anche misurare dalla capacità di ricordare il futuro, cioè di arrivare un giorno a ricordare ciò che oggi è futuro.
Anche il futuro non è più quello di una volta. È appena uscito per l’editore Cortina un libro del filosofo francese Edgar Morin, classe 1921. Titolo Conoscenza ignoranza mistero, è uno straordinario libriccino che ci riporta al senso e alla radice della vita, con pagine da incorniciare (6). «La coscienza – scrive Morin – dovrebbe essere l’avvenire dell’umanità». La trinità Scienza-Tecnica-Economia è il motore che spinge il vascello Terra verso il futuro: quale futuro? Da una parte verso il disastro dell’ambiente, la crescita delle armi nucleari, il degrado della speculazione finanziaria e le disuguaglianze, la deriva delle chiusure etniche, dei rancori e delle frustrazioni di intere popolazioni povere. D’altra parte quella stessa trinità ci conduce verso risultati impensabili sul piano della medicina, al punto che forse arriveremo a essere immortali (o meglio amortali) e i robot ci permetteranno di liberarci del lavoro. Saremo post-umani: cioè non saremo più quelli di una volta. Più felici? Inutile chiederselo. Anche la felicità probabilmente non sarà più quella di una volta.