La difficile arte di diventare vecchi

/ 27.02.2017
di Ovidio Biffi

Venerdì 3 febbraio. Inizio di giornata dedicato al panettone di San Biagio che attende da Natale. Pur essendo io più protestante che cattolico per quel che riguarda i santi, il 3 febbraio non riesco a trascurare o interrompere il rito del panettone di «San Biàs che benediss la gola e ul nas». Qualcuno riderà, altri si chiederanno che razza di benedizione possa mai essere il mangiare una fetta di panettone. Fatto sta che quest’anno San Biagio mi ha procurato anche un inatteso incontro fra due distinti signori, pure loro in giro di buon mattino. Il più giovane (si fa per dire: assieme raggiungono ormai i 180 anni) è avvocato; l’altro invece è professore, di scienze politiche. Entrambi non hanno voluto seguire gli iter normali suggeriti dalle rispettive lauree. L’avvocato, dapprima orientato verso la politica, si è dedicato con successo alla gestione imprenditoriale arrivando sino a quella industriale, diventando infine quello che è ancora oggi: finanziere. Il professore invece ha sempre insegnato solo con impieghi temporanei per favorire una parallela carriera nell’amministrazione pubblica, dove ha saputo porsi al servizio prima di governi e poi di presidenti (ben sei!) nonostante la spregiudicatezza delle sue azioni politiche e diplomatiche.

I due argomentano di politica. Questo il dialogo dell’avvocato: in Occidente «il contrasto che è venuto a crearsi non è più tra ideologie (spesso confuse ed edulcorate), tra destra e sinistra, ma tra un potere politico con coalizioni di governo formate da partiti antitetici e con maggioranze sempre più risicate, giustificate unicamente dalla volontà di non rinunciare ai vantaggi del comando che si è alleato con il potere tecnoburocratico, rappresentato da istituzioni internazionali, nell’intento di regolare e governare il mondo da un lato e dall’altro da una vasta fascia di cittadini che non si sente più rappresentata ed è frustrata nelle proprie aspirazioni dal cartello del potere». Il professore orienta il discorso sulla sua materia, strategia politica, ed espone questi argomenti: «Penso sia essenziale per l’America recuperare una visione strategica globale… Gli Americani pensano che la condizione normale del mondo corrisponda a stabilità e progresso: se c’è un problema può essere rimosso investendo in impegno e risorse, e una volta risolto, l’America può tornare al suo isolamento. Invece i cinesi pensano che nessun problema possa mai essere definitivamente rimosso. Perciò quando parlate con gli strateghi cinesi, questi parlano del processo piuttosto che di problemi specifici. Quando parlate con gli strateghi statunitensi , questi in genere cercano le soluzioni». 

Accennato ai contenuti del loro colloquio, si impone un chiarimento sul loro incontro: in realtà i due non si sono forse mai visti, li ho messi io uno a fianco dell’altro dopo che mi erano apparsi sull’iPad. Avevo trovato l’avvocato, Tito Tettamanti, sulla prima pagina del «Corriere del Ticino» impegnato a chiarire il potenziale ruolo dei ministri miliardari che il presidente americano Trump ha chiamato al governo. Magnifico dribbling iniziale: il suo «non penso che pregiudizi e riflessioni banalmente generiche permettano un giudizio corretto» fa da prologo alla sincera ammissione che «qualche figlio di buona donna» possa esserci anche tra i miliardari, aggiungendo che questo non basta a legittimare le critiche stupide udite sul conto di questi «paperoni». Poi spiega come e quanto le esperienze e le conoscenze di queste personalità potrebbero essere utili contro le ipocrisie dei partiti e i fallimenti di politiche che un po’ ovunque nel mondo, anche negli Usa, stanno deteriorando i rapporti fra governi e cittadini.

Il professore, Henry Kissinger, mi era apparso invece in una doppia pagina del quotidiano italiano «il Foglio». È da antologia la sua intervista, lunghissima giacché l’autore – Jeffrey Goldberg del periodico americano «Atlantic» – mentre si procedeva alla traduzione in italiano del testo da pubblicare sul quadrimestrale di geopolitica «Il nodo di Gordio» ha rimediato un aggiornamento, interrogando il professore anche sugli ultimi sviluppi della nuova politica estera americana. Forse i più giovani non conoscono Kissinger, altri di sicuro lo contestano riesumando gli scheletri nel suo armadio di segretario di Stato americano (bombardamenti in Vietnam e in Cambogia, «golpe» in Cile e Argentina…). Lui, forte anche di un Nobel per la pace, Kissinger, da oltre mezzo secolo figura fra i massimi esperti di strategia politica internazionale, e le considerazioni esposte nell’intervista citata sono una nuova conferma della sua straordinaria lucidità. Dimenticando la politica, e pensando invece a come questi due personaggi riescono a vivere da anziani impegnati a conservare una loro freschezza interiore e da cittadini interessati al futuro della società, trovo giusto chiudere l’immaginario incontro fra Henry Kissinger e Tito Tettamanti con queste parole di André Maurois: «Invecchiare è una cattiva abitudine che l’uomo attivo ed entusiasta non ha il tempo di prendere».