È l’inizio della parabola discendente di Tayyip Erdogan? Forse è presto per dirlo: gli autocrati si aggrappano al potere, quando sentono che comincia a sfuggire loro di mano. Ma l’elezione a sindaco di Istanbul di Ekrem Imamoglu, del partito d’opposizione CHP, in particolare il fatto che alla seconda votazione (la prima, tre mesi fa, era stata annullata per volere di Erdogan) ha aumentato il suo margine sull’avversario, un ex primo ministro del partito al governo AKP, da 13mila a 800mila voti, è la dimostrazione che la democrazia in Turchia non è morta, neppure ora che Erdogan concentra nelle sue mani tutto il potere, persino quello giudiziario. Il fatto che Erdogan consideri Istanbul la sua città – qui partì la sua scalata al potere con l’elezione a sindaco nel 1994, qui ha fatto erigere un palazzo degno di un sultano – rende la sconfitta ancora più bruciante.
Come ha potuto accadere? Contro il candidato del presidente hanno votato anche elettori del suo partito, evidentemente contrariati dallo stile autoritario, autocratico di Erdogan, ma soprattutto preoccupati per la politica economica del governo, dopo che da un anno la Turchia è sprofondata in una pericolosa recessione, con un’inflazione annua del 19 per cento, tassi d’interesse del 24 per cento, un debito estero di 328 miliardi di dollari (a fine 2018), di cui due terzi del settore privato, una disoccupazione al 14 per cento – in sintesi, il candidato perfetto, assieme all’Argentina, ad una crisi economica devastante. Che Erdogan si attorni solo di persone fedeli ma non per forza capaci (suo genero è stato nominato superministro dell’economia), acuisce l’impressione che al presidente importi di più conservare il potere che il benessere del paese. E le sue fantasiose teorie economiche (sono gli alti tassi d’interesse a creare inflazione, quindi a svalutare la lira turca) non aiutano a tranquillizzare gli animi.
Persino giornali vicini al governo si sono permessi delle critiche all’indomani della votazione, mentre all’interno del partito AKP si rafforza una fronda fra i cui protagonisti vi sono gli ex premier Gül e Davutoglu e l’ex ministro delle finanze Babacan. Molti si aspettano che i tre fuoriescano dall’AKP e formino un nuovo partito, sulle stesse posizioni politiche e morali, ma più democratico e vicino alla realtà. Erdogan capirà la lezione, vorrà condividere il potere con altri, ascolterà le voci più sagge? Per ora non ci sono segnali in tal senso. Anzi: il giorno successivo l’elezione di Imamoglu è cominciato il processo contro 16 personalità di spicco (6 sono fuggite dalla Turchia) in relazione all’occupazione del parco Gezi a Istanbul sei anni fa, accusate di «ribellione violenta» con l’intento di rovesciare il governo. Una di queste è la leader del CHP Canan Kaftancioglu, molto vicina a Imamoglu. Erdogan dà piuttosto segno di volersi vendicare e mostra una volta di più il suo carattere paranoico, come si è visto nella persecuzione avviata tre anni fa dopo il fallito colpo di Stato contro di lui.
L’opposizione controlla ora Istanbul, Ankara e Smirne. E benché ci sia da attendersi che Erdogan limiti il potere esecutivo dei sindaci, non potrà tuttavia evitare che Imamoglu indaghi sul comportamento della giunta che lo ha preceduto: nei 17 giorni trascorsi come sindaco in aprile ha potuto constatare che a disposizione del suo predecessore c’erano dozzine di auto di lusso e milioni di dollari per le case degli alti funzionari, mentre la Turchia sprofondava nei debiti. Portare a galla i privilegi, il clientelarismo e gli affari loschi delle persone legate a Erdogan può minare ulteriormente la fiducia nel presidente. Fra 4 anni questo potrebbe costargli la rielezione.