Cara Silvia Vegetti Finzi,
ho letto con molto interesse il problema posto da una lettrice. Sì, sono tante le ansie che assalgono le donne prima di poter decidersi di diventare mamme, quanto le capisco! E aumentano sempre di più a forza che gli anni passano...
Lei ha oltretutto la mia simpatia per aver evocato la poca stima, quasi disprezzo (come se niente fosse) dello stato di gravidanza che vige fra certe donne e per aver messo in evidenza la mancanza dell’amorevole coscienza sul misterioso sviluppo della creatura in divenire nel grembo che sembra spesso quantité négligeable per 9 mesi... È senz’altro anche vero e utile mettere in rilievo l’evoluzione sociologica che ha visto una forte spinta in avanti delle donne nel mondo lavorativo con formazioni professionali sempre più specializzate (...). Ma guardando alla Francia i figli non sembrano mancare per niente! Lo Stato provvidenziale c’entra molto! Forse varrebbe la pena di ridisegnare il modello sociale per promuovere gravidanze felici, con meno fattori stressanti e un ventaglio di possibilità di aiuti in seguito.
Mi è soprattutto piaciuta la Sua conclusione («Se vogliamo essere in grado di scegliere dobbiamo confrontare per tempo le due eventualità, il sì e il no, senza lasciarci condizionare da esigenze sociali indifferenti ai desideri profondi delle persone»). Eh sì quanto ha ragione! / Margaretha Jud
Carissima Margaretha,
grazie del suo intervento che mi permette di riprendere un tema a me molto caro, la maternità. Non intendo l’ideale astratto che, come tutti gli ideali, suscita un generale quanto superficiale consenso. Ma il vissuto concreto delle madri, fatto del peso del pancione, delle fatiche del parto, delle difficoltà di allattamento, delle notti insonni, delle corse per portare la creatura al Nido con l’ansia di non arrivare in tempo al lavoro, della problematica condivisione dell’accudimento… ma anche di tante gioie, a cominciare dal riconoscersi capaci di generare, dal sentire la vita sorgere dentro di sé, dal condividere col compagno le fantasie dell’attesa, la sorpresa del primo incontro e così via. Una complessità che fa paura a chi, come le ragazze di oggi, è abituato a progetti lineari: la scuola, l’università, il lavoro, la carriera.
Col risultato che la ragione calcolante emargina prospettive che appaiono nebulose e rischiose nella misura in cui coinvolgono altri: il partner e il figlio che nascerà. E che non sono reversibili: si può cambiare lavoro ma si è genitori per sempre. Non conosco ex figli.
A questo punto, come ha fatto lei, cara lettrice, mi viene fatto notare che in Francia le cose funzionano bene perché lo Stato sostiene in mille modi la filiazione e la famiglia. Come a voler dire che la maternità è una questione sociale più che psicologica. È vero che la Francia conserva un buon indice di natalità, ma perché venissero approvati provvedimenti positivi è stato necessario che l’opinione pubblica si dimostrasse favorevole, disposta a sostenere una spesa sociale sottratta ad altre priorità. In termini psicologici, che fossero condivise motivazioni a favore della natalità. Cosa che attualmente non sta avvenendo in altri Stati dove, non a caso, emergono deficit clamorosi nelle statistiche dei nuovi nati.
Anni fa la grande psicoanalista francese Françoise Dolto aveva promosso una vera e propria mobilitazione a favore dei bambini, coinvolgendo madri e padri. Anch’io penso che si debba rivolgere un appello alle giovani generazioni perché non dimentichino né sottovalutino questo lato dell’esistenza. Non si tratta di consacrare la maternità, come spesso ci viene imputato, ma di evocarla perché non scivoli via, nella corrente della «società liquida».
Ma che cosa si può fare quando le priorità sono altre? Non penso certo a una campagna pubblicitaria ma a qualche cosa al tempo stesso personale e collettivo, come il racconto della vita vissuta. Nelle vicende di ciascuno temi unici e irripetibili si intrecciano con sentimenti, desideri ed emozioni universali. Come scrivevo in una lettera precedente, contrariamente agli uomini le donne nascono, come le bambole matrioske, l’una dentro l’altra. La figlia è stata contenuta nel grembo della madre e questa in quello della nonna e così via. Una implicazione che i maschi non conoscono. Per questo il racconto dell’esperienza materna di generazione in generazione può essere particolarmente coinvolgente. Gli uomini hanno sempre guardato con sospetto al parlar tra donne: si sentono esclusi da conversazioni che non condividono perché è diverso il loro corpo, differente la loro identità, maschile il loro sguardo. Una diffidenza che si è tramutata, sin dall’antica Grecia, in un ordine perentorio: «Alle donne si addice il silenzio» scrive Aristotele. Un silenzio che osiamo rompere quando parliamo come loro, quando li imitiamo smarrendo però la nostra specificità. Così facendo ci sentiamo emancipate ma tradiamo il nostro sesso diventando estranee a noi stesse.
Per questo è bene che risuonino con forza i versi del grande poeta José Saramago: «È la lunga interminabile conversazione delle donne, sembra una cosa da niente, questo pensano gli uomini; neanche loro immaginano che è questa conversazione che trattiene il mondo nella sua orbita. Se non ci fossero le donne che parlano tra di loro gli uomini avrebbero già perso il senso della casa e del pianeta».