In Venezuela li chiamano bachaqueros, dal nome di una formica gigante che vive nell’Amazzonia (bachaco) e porta sul dorso pesi diverse volte superiori a quello del proprio corpo: sono coloro che comprano tutto quanto ancora si trova nei negozi per poi rivendere la merce sul mercato nero, a prezzi enormemente maggiorati. Come leggo in Crude nation, o Cuando se jodìo Venezuela? nella versione in spagnolo tradotta dallo stesso autore, Raùl Gallegos, per diversi anni corrispondente a Caracas per il «Wall Street Journal», secondo il rinomato direttore di Datanàlisis Luis Vicente Leòn due terzi delle persone che fanno la coda davanti ai negozi rivendono i prodotti sul mercato nero, accentuando la penuria di prodotti. Come biasimarli, dovendo vivere in un Paese in cui l’inflazione ha superato il 700 per cento nel 2017 e riduce drasticamente il potere d’acquisto dei salari? Scrive Gallegos che i venezuelani hanno imparato anche altri metodi per far fronte all’inflazione: molti si indebitano, perché sanno che in poco tempo il debito si polverizza, mentre i tassi d’interesse delle banche per i crediti non possono superare il 29 per cento.
Ma come si è giunti a questa inflazione, alla penuria di ogni bene e medicamento? Com’è possibile che il paese con i più grandi giacimenti di petrolio al mondo sia sull’orlo della bancarotta? La risposta è semplice: è il petrolio la maledizione del Venezuela. Fin da quando si è scoperto il primo giacimento nel 1914, il Venezuela ha legato il suo destino a quest’unica ricchezza. Certo, era in sintonia con i tempi che i dittatori Juan Vicente Gomez (al potere dal 1908 al 1935) e poi Marcos Pérez Jiménez (1952-1958) si accontentassero di arricchirsi con il solo petrolio, ma anche i governi democratici non hanno mai stimolato una diversificazione dell’economia. E oggi, come già successo in passato, dopo il crollo del prezzo del petrolio il Venezuela si trova sul lastrico. Con una situazione economica aggravata dalle politiche socialiste di Chavez prima e di Maduro poi.
In che modo ha reagito il governo al crollo delle entrate in dollari? Chavez e Maduro, come prima di loro altri presidenti (anche democratici), hanno ridotto al minimo le importazioni, limitato enormemente l’accesso ai dollari e, per finanziarsi (e per finanziare i debiti che generano le molte aziende nazionalizzate), stampato moneta a più non posso, alimentando l’inflazione. Oggi esistono tre diversi cambi del dollaro (fino all’anno scorso erano 4), solo pochi privilegiati (i generali per primi) hanno accesso ai dollari, le aziende che hanno bisogno di acquistare componenti all’estero pagano un cambio ben più alto, e infine c’è un fiorente mercato nero. Chi possiede dollari è ricco, gli altri cercano di sopravvivere. Persino le politiche sociali introdotte da Chavez acuiscono i problemi: oltre alla benzina (che costa pochi centesimi al litro) ci sono molti generi di prima necessità il cui prezzo è fissato a livelli bassissimi dal governo, eppure c’è penuria di tutto, a causa dei bachaqueros e di chi contrabbanda merci nella vicina Colombia per ottenere guadagni enormi.
Il venezuelano di classe media, scrive Gallegos, è da tempo un grande consumatore, ha conosciuto la ricchezza, si è accontentato di importare ogni ben di dio ma non si è premurato di produrlo. E oggi le difficoltà burocratiche che il regime impone alle aziende private rendono ancora più debole il settore manufatturiero. Quando la crisi politica si risolverà – sperando che non sfoci in guerra civile – ci vorrà una rivoluzione culturale. L’opposizione a Maduro non dà finora segno di averlo compreso, forse faranno la differenza i cervelli fuoriusciti dal Venezuela, che non vedono l’ora di poter tornare.