Tutti ci stiamo interrogando su che cosa ne sarà del settore dell’informazione, ora che le notizie, vere o false, circolano senza che ci sia più l’intermediazione di un giornalista, di un esperto, di una testata, di chi insomma, con il suo mestiere, potrebbe selezionare e dare una gerarchia al flusso continuo di informazioni. Come è noto una soluzione non c’è, così come non è ancora stato individuato un modello di business che possa essere al contempo redditizio e accurato. Il tema è enorme, ma semplificandolo possiamo dire che, per quel che riguarda l’America che è ancora il posto da cui traiamo ispirazione, nell’ultimo decennio il grande scontro è stato tra i media digitali di nuova generazione e i cosiddetti media tradizionali, gli elefanti.
Per lungo tempo i primi sono risultati inarrestabili e prodigiosi: più snelli, più flessibili, più diretti, più rapidi. Abbiamo raccontato, con un misto di stupore e invidia, le avventure di giornalisti di successo che hanno lasciato il posto di lavoro presso testate storiche per mettersi in proprio, con nuovi brand e nuove offerte di contenuti. Laddove gli elefanti arrancavano, questi piccoli ma accurati e briosi new media andavano veloci.
Ora però pare che questo scontro, che pareva definitivo, si stia ribaltando: «Buzzfeed» ha annunciato il licenziamento di 70 dipendenti dopo esser rimasto sotto agli obiettivi di reddito di parecchi milioni di dollari; «Vice» anche non ha raggiunto gli obiettivi (e non di poco: 100 milioni di dollari in meno); «Mashable» valeva 250 milioni di dollari due anni fa, ora ne vale un quinto; e molte altre «tigri» del digitale hanno ammesso di avere perplessità riguardo al futuro. I grandi invece vanno forte: la rincorsa a suon di scoop di «New York Times» e «Washington Post» non è soltanto una riedizione di una guerra leggendaria, ma anche la dimostrazione di una vitalità che pareva perduta. Si dice che il «business Trump» sia una miniera d’oro per molti media, ma non spiega tutto. La Cnn per esempio, che secondo Trump è tutta una «fake news» o in alternativa un bidone della spazzatura, non riesce a monetizzare il business antitrumpiano e ancora arranca. Il «Washington Post» al contrario ha trovato un editore facoltoso e illuminato – Jeff Bezos, il signor Amazon – che ha deciso di investire sulla redazione e sull’offerta informativa in un modo che è risultato apprezzato anche dagli utenti finali. La storia del momento, quella che ha fatto risollevare gli occhi a chi lavora per gli elefanti, riguarda l’«Atlantic».
Il magazine, che ha una storia lunga più di 150 anni, ha annunciato di recente che assumerà entro la fine del 2018 cento nuovi dipendenti (per metà giornalisti, gli altri si occupano di video, di podcast, di eventi, della nuova unità dedicata ai talenti): l’investimento è possibile grazie all’investimento fatto da Laurene Powell Jobs, vedova del fondatore di Apple, Steve Jobs, che con la sua società Emerson sta investendo in varie iniziative nei media, compreso Axos, che è uno degli outlet digitali più belli del momento e che non dà, a differenza degli altri, segnali di cedimento. L’editore illuminato cambia le prospettive dei media tradizionali, ma l’«Atlantic» può anche investire, come ha detto il suo direttore, sul proprio «dna»: raccontare e far circolare le idee, in modo accurato e al tempo stesso accattivante.
La convergenza tra un presidente che dà molto materiale di discussione, un modello digitale traballante ed editori con una visione più chiara del futuro dell’informazione non basta però a spiegare quel che sta avvenendo. Un altro elemento d’analisi, imprescindibile, è Facebook. Come si sa, il social media che da solo ha più «cittadini» della Cina, non sta passando un bel momento dal punto di vista della propria immagine (da quello economico continua ad andare benissimo): tra fake news, troll, ingerenze russe, atteggiamenti da «padroni dell’universo», Facebook ha finito per essere un capro espiatorio perfetto per tutti i mali che affliggono il mondo dell’informazione. In realtà, le accuse continue a Facebook hanno fatto sì che l’azienda cambiasse il proprio algoritmo che permetteva agli outlet digitali di rendere visibili – e virali – i loro contenuti, e così ora sono rimasti senza quella vetrina indispensabile, e perdono terreno. Il confronto tra i media e Facebook è quello che oggi dovremmo tenere più sott’occhio: ci sono progetti che continuano insieme, soprattutto a livello di giornali locali (che in America si muovono per minifederazioni), ma ci sono anche progetti che si muovono nel verso contrario. Per la prima volta nella storia, l’industria dei media ha creato un Pac, un comitato di azione politica, per chiedere al Congresso un aiuto a sopravvivere in questa stagione di dominio delle aziende tech: i media chiedono protezione, da Google e da Facebook.