Turismo, quale turismo? La questione è annosa e agita il sonno di molti, dagli operatori ai ristoratori, fino agli abitanti che hanno la fortuna/sfortuna di assistere all’arrivo di sciami di gitanti. Ne sanno qualcosa i verzaschesi, che ad un tratto, a seguito di un sorprendente quanto imprevisto effetto di un video immesso nella Rete, si sono ritrovati al centro di un ciclone. Nelle acque smeraldine del fiume si sono gettati plotoni di giovani, stregati dal fascino di queste «Maldive alpine», flutti che defluiscono placidamente tra rocce, mulinelli e massi levigati come guance, in un moto quasi giocoso, primigenio, apparentemente innocente. «Chiare, fresche e dolci acque / ove le belle membra…».
Ma ecco la domanda: è desiderabile, è sostenibile un’invasione del genere in una regione che, come altre vallate alpine, si regge su delicati equilibri naturali? La Verzasca non è attrezzata, né lo sarà mai, per diventare un complesso montano globale. Questo non significa che debba respingere chi intende visitarla; ma, appunto, ciò che chiede non è la carovana sguaiata e cafona, interessata unicamente alle prodezze natatorie, ma il turista tranquillo, curioso, attento alla dimensione ecologica, rispettoso delle esigenze degli autoctoni.
Conosciamo l’obiezione: si sogna una figura di turista che non c’è più; che forse esisteva ai tempi del «grand Tour», quel viaggiatore aristocratico che scendeva dalle carrozze con il taccuino in mano, pronto a registrare impressioni, curiosità, reazioni e umori dei nativi per poi riversarle con prosa elegante in diari e guide. È vero: quei personaggi sono scomparsi, spazzati via dall’avvento dei viaggi organizzati, frenetici e divoratori (ne sanno qualcosa città come Venezia e Barcellona). Tuttavia sarebbe peccato abdicare, cedere alle cavallette prima di combattere. Una lotta che deve andare di pari passo con lo sforzo di recuperare il sedimento della tradizione, le voci e i mormorii della valle.
La miglior difesa sarebbe la cultura, ovvero la consapevolezza di entrare in un mondo riservato e fragile, portatore di un passato dolente; una valle in cui per molti secoli è stato difficile vivere, tra dirupi, cenge, frane e disgrazie d’ogni genere. È la Verzasca svuotata dall’emigrazione che ritroviamo in tante pagine «vere e amare» di Piero Bianconi, in libri come Croci e rascane (testi composti durante la seconda guerra mondiale), come l’intramontabile Albero genealogico (1969), oppure nei volumi, smilzi ma intensi, di Anna Gnesa (1904-1986).
E proprio sull’opera di questa prosatrice dimenticata vorremmo qui richiamare l’attenzione, come possibile contraltare al modello usa-e-getta sopra descritto. Un modo di assimilare la valle col passo lento, lontano dalla carrozzabile, e attivando sensi come la vista, l’udito, l’olfatto. Osservava la scrittrice in Questa valle (1974): «La Verzasca più vera oggi bisogna cercarla al di fuori dei luoghi battuti. Soltanto le case più intatte e le solitudini hanno serbato il potere medianico di rievocare il volto e la vita di coloro che vissero qui. Pare che la loro immateriale presenza si ritiri, scacciata da immemori o ignari, in una zona sempre più lontana, dove nessun sopravvenuto ha finora cancellato le tracce del passato».
Studi a Zurigo, con una tesi sulla prosa d’arte di Emilio Cecchi, Anna Gnesa aveva trascorso un periodo all’estero, a Damasco, prima di insegnare nelle scuole maggiori di Caslano, Tenero e Gordola. Durante l’estate era solita raggiungere Brione, e di lì perlustrare con gli occhi e con l’apparecchio fotografico i terrazzi che gli antenati avevano faticosamente lavorato. «La valle è casa nostra. Se sappiamo conservarla, in un tempo sempre più affollato e avvelenato vi potremo, con consapevolezza nuova, ritrovare le sorgenti. E a qualcuno forse sarà dato d’incontrare tra le vette, in silenzio e trasparenze, le lontane primavere degli avi».
«Silenzio», «solitudini», «tracce», «passato». Parole che il rullo compressore del turismo moderno pialla ed espelle dall’orizzonte mentale della sua distratta clientela ridotta a gregge. Non sappiamo come, ma sarebbe bello se nello zaino del popolo della Rete trovasse posto, accanto al telefonino, anche qualche testo di questa schiva autrice, volumetti ancora presenti nel catalogo delle edizioni Dadò: la citata Questa valle e Lungo la strada (1978), con prefazione di Mario Agliati. Pia illusione?