Kim Jong-un, maestro di cerimonie

/ 07.05.2018
di Peter Schiesser

Possiamo davvero crederci? La pace fra le due Coree, una vera pace che sostituisca il sempre fragile armistizio del 1953, è a portata di mano, dopo lo storico incontro a Panmunjon fra il dittatore del nord Kim Jong-un e il presidente del sud Moon Jae-in (la cui famiglia fuggì dal nord al sud)? Oppure il figlio sta semplicemente imitando il padre, Kim Song-il, che 18 anni fa promise all’allora presidente sudcoreano Kim Dae Jung distensione, incontri tra famiglie divise, scambi culturali, la creazione di una zona industriale comune, poi nel 2003 al successivo presidente sudcoreano Roh Moo Hyun anche l’impegno per una denuclearizzazione della penisola e quindi nel 2007 di firmare una vera pace? In effetti, la Corea del nord interruppe il suo programma nucleare, per un periodo, ma poi gli ispettori dell’ONU vennero cacciati, le relazioni con il sud andarono peggiorando e oggi, con il giovane Kim, la Corea del nord pare aver raggiunto una maturità tecnologica non solo per costruirsi l’atomica, ciò che ha già fatto, ma anche i missili in grado di trasportare le testate fino agli Stati Uniti.

Come fare a fidarsi di un dittatore che non ha remore di tirannizzare e perseguitare il proprio popolo, che fa assassinare il fratellaststro in esilio e il ben più potente zio (e fermiamoci qua) in patria?

Recentemente, il professore di economia e finanza svizzero Alfred Mettler, commentando la guerra commerciale in nuce fra Stati Uniti e Cina, ha affermato al «Tages Anzeiger» che «Trump gioca a poker, Xi a scacchi». Di Kim verrebbe da dire che è un abile giocatore di poker e di scacchi: dopo aver dato l’impressione di essere pronto a scatenare una guerra nucleare, in questo ben assecondato dal presidente americano Trump con cui non sono mancati scambi di epiteti offensivi, ecco che dapprima accetta di partecipare congiuntamente al sud alle olimpiadi invernali di Pyeongchang, poi di incontrare il presidente Moon per favorire una distensione fra i due paesi e infine dichiara che non ci saranno più sperimentazioni nucleari (poiché il programma è completato), invitando Donald Trump ad un vertice in maggio o giugno – invito accettato. In realtà, pochi giorni prima geologi cinesi avevano rivelato che l’ultimo test nucleare ha fatto collassare il sito ed oranon è più agibile: Kim non è semplicemente più in grado di effettuare test atomici e i suoi tecnici sembra non abbiano davvero risolto il problema di come non far esplodere le testate quando i missili rientrano nell’atmosfera. La minaccia nucleare nordcoreana è seria, ma in mano, Kim, non ha quel poker d’assi che fa credere di avere.

Eppure, è Kim Jong-un a dirigere il gioco, a dettare l’agenda, a trattare da pari a pari con la superpotenza americana. È riuscito ad ottenere un vertice con il presidente sudcoreano ricco di simboli e di speranze senza promettere nulla di concreto. Pure il presidente americano ha accettato di incontrarlo sulla base di vaghe promesse. Ed è riuscito a dividere gli analisti in due campi, gli scettici e gli ottimisti. Su un punto chiave, però, entrambi concordano: per quale motivo Kim dovrebbe rinunciare all’atomica, sua assicurazione sulla vita?

A Washington c’è (anche) preoccupazione per il vertice fra Trump e Kim: il presidente americano è imprevedibile, il suo narcisismo e il desiderio di portare a casa un successo che lo proietterebbe nella storia potrebbero indurlo a concedere troppo ai nordcoreani, aggiungendo in tal caso il suo nome a quello dei precedenti presidenti statunitensi presi in giro per decenni dai Kim. Inoltre, come scrive il «New York Times» (30.4.2018), aprendo alla Corea del nord Trump manda messaggi contraddittori al mondo: da una parte minaccia di rompere l’accordo sul nucleare con l’Iran, nonostante Teheran lo stia rispettando (le «rivelazioni» del premier israeliano Netanyahu, di cui scrive Federico Rampini a pagina 25, si riferiscono a prima dell’accordo), dall’altra è pronto ad incontrare e a concludere trattati con un dittatore che si è costruito la bomba atomica affermando di volerla usare. In sostanza, afferma il giornale americano, «Trump rischia di mandare il messaggio che quelle americane sono promesse vuote, che gli Stati Uniti non mantengono gli impegni firmati, ciò che dà poche ragioni agli avversari di fare concessioni, gli Stati canaglia invece possono pensare di cavarsela meglio sfidando gli Stati Uniti». Un problema in più, per una potenza mondiale la cui leadership è sempre più minacciata dall’affermarsi di altre nazioni, Cina in testa.

E se invece fosse tutto vero, che Kim Jong-un è davvero intenzionato a normalizzare (su sua misura) le relazioni con la Corea del sud e con gli Stati Uniti, per avere quello sviluppo economico che gli permetterebbe di mantenersi in sella, sul modello del capitalismo di Stato cinese? La sua mano tesa non può essere ignorata, ma per accordargli fiducia è ancora troppo presto.