Kashmir e derive nazionalistiche

/ 26.08.2019
di Peter Schiesser

A parte le solite scaramucce al confine fra India e Pakistan, con conseguente stillicidio di vittime, finora la cancellazione dell’autonomia per lo Stato del Jammu e Kashmir imposta dal governo Modi il 5 agosto non ha ancora provocato reazioni estreme. Nella regione si vive l’immobilità che segue uno shock: nessuno si aspettava una mossa del genere da parte del governo indiano.

Inoltre, i kashmiri hanno poco da protestare, poiché Delhi ha inviato 45mila soldati per imporre un coprifuoco totale a Srinagar e in altri centri. Soldati che vanno ad aggiungersi agli altri 500mila sparsi per lo Stato – e se contiamo anche i militari (e i miliziani islamici) presenti nella parte del Kashmir occupata dal Pakistan, la regione risulta una delle più militarizzate al mondo. I kashmiri, musulmani, sono prigionieri nelle proprie case, in difficoltà a procurarsi cibo, medicamenti, cure, impossibilitati a spostarsi dalla miriade di posti di blocco e controlli. Sette milioni di persone private di quei diritti che fino a ieri garantivano loro una certa autonomia (che nei decenni era già andata erodendosi), in particolare il diritto, a loro soltanto riservato, di acquistare terre e immobili. Questo diritto oggi è abolito, e la maggioranza musulmana teme quindi di diventare presto oggetto della politica di colonizzazione e assimilazione che lo Stato centrale a Delhi sta perseguendo da decenni in tutto il paese, ancor prima dell’avvento al potere dei nazionalisti guidati da Narendra Modi. Ma quando il coprifuoco finirà? E quando il Pakistan e le milizie islamiche si saranno capacitati che il Kashmir potrebbe trasformarsi in una normale provincia indiana, in futuro sempre più popolata da indù, quindi difficilmente rivendicabile, che succederà?

In Occidente abbiamo ormai una vaga e distaccata idea del tempo della decolonizzazione, in Oriente no: resta molto presente, sia nel rapporto con l’Occidente, sia nelle relazioni fra Stati vicini. In particolare, in India il Kashmir rappresenta il lavoro incompiuto della Partition, la scissione del subcontinente in India e Pakistan: per il suo controllo i due Stati hanno combattuto due guerre, sono scaturite violenze con oltre 200mila morti attorno il 1945 e una insurrezione con 100mila morti a partire dal 1989 seguita alle elezioni truccate del 1987. Possiamo quindi essere certi che il silenzio che al momento avvolge il Kashmir lascerà presto il posto al fragore delle bombe, nel Jammu indù, nel Kashmir musulmano, ma anche nel resto dell’India. Gli sparuti militanti per la secessione del Kashmir accoglieranno presto numerosi giovani intenzionati a cancellare l’umiliazione dell’occupazione militare indiana. Siccome sotto il governo Modi è aumentata la pressione sui musulmani in tutta l’India, con intimidazioni, soprusi e violenze, c’è da aspettarsi una reazione degli estremisti islamici, infiltrati dal Pakistan o cresciuti in loco (l’India conta 150 milioni di musulmani) in tutto il paese.

Ma la mossa di fagocitare il Kashmir ha una valenza ulteriore: salutata dalle frange indù più estremiste, dalle cui fila viene anche il primo ministro Modi, ha anche il potere di intimorire l’opposizione interna laica, che legge in questa annessione e nella radicalizzazione del discorso nazionalistico una fascistizzazione del paese. Il Kashmir è la perla che Modi vuole offrire agli indù, troppo a lungo contesa con il vicino-nemico Pakistan. Ignora volutamente, in nome di un revanscismo storico, che l’India esiste perché è un crogiuolo di razze e lingue e religioni che hanno trovato un minimo comune denominatore con l’indipendenza dagli inglesi nel 1947, o non ne è consapevole? In entrambi i casi, le sue sono decisioni foriere di tempesta.