Italianità senza Italia

/ 18.09.2017
di Orazio Martinetti

Il dibattito sulla doppia cittadinanza è figlio di questo nostro tempo pregno di risentimenti e d’insicurezze. La decisione di Ignazio Cassis di rinunciare al passaporto italiano ha riacceso la discussione sull’opportunità di mantenere questo status, in vigore da decenni (e che permette a molti uomini e donne, svizzeri compresi, di conservare i propri legami con la madrepatria, soprattutto attraverso l’esercizio del voto). Ma ora i doppi cittadini attirano sguardi sospettosi; molti li considerano infidi, personaggi ibridi la cui fedeltà alla bandiera è perlomeno dubbia. Non si può, si sostiene, servire due patrie: o l’una o l’altra.

I tempi, dicevamo. Negli anni di guerra le coppie miste erano sottoposte a sorveglianza; gli Stati Uniti, dopo Pearl Harbor, internarono migliaia di giapponesi residenti sul loro territorio. In paesi neutrali come la Svizzera, le autorità raccomandavano di non intrattenere relazioni di confidenza con persone d’oltre confine. «È giunto il momento di dar prova della massima discrezione», si leggeva ancora nel 1969 nel prontuario Difesa civile distribuito a tutti i fuochi dal Dipartimento federale di giustizia e polizia: «Lo straniero – che forse già domani sarà il nostro nemico – osserva e registra tutto quanto avviene in casa nostra. [...] Dobbiamo dunque tacere; ogni nostra parola inutile può esser causa della morte di nostri concittadini».

Terminato il periodo dei conflitti caldi e freddi, caduto il muro, la questione della doppia cittadinanza cessava di rappresentare un ostacolo; anzi, l’orizzonte che ora si apriva era semmai quella di introdurre una «cittadinanza europea» e quindi di un documento ufficiale che certificasse questo passaggio nella vita di tutti giorni. «L’unica nostra salvezza possibile – sono parole di Claudio Magris del 2014 – è un vero Stato europeo, federale e decentrato ma organico nelle sue leggi, rispetto al quale gli attuali singoli Stati siano quello che oggi sono le Regioni per i singoli Stati». Questo il «sogno europeo», come fu definito allora, e che ora sembra svanire sotto i colpi del nazionalismo risorgente. Che vuole rialzare gli steccati, sotto forma di reti e cancellate, ma anche favorire un ritorno alla vecchia mentalità legata alle sovranità nazionali.

Il fenomeno è visibile ovunque. È esteriore (vessilli al vento, autocollanti rossocrociati, simboli e stemmi, magliette), ma anche interiore, e quindi culturale. Mai come ora si è discusso di tradizioni perdute, di radici rescisse dalla modernità tanto arrembante quanto cieca, di identità smembrate da un cosmopolitismo indifferente alle sorti delle minoranze. La soluzione proposta è quella di compiere un gran balzo all’indietro, così da ricomporre l’armonia distrutta.

La contestazione del doppio passaporto (che fino a ieri non infastidiva nessuno) rientra in questa ripresa di umori dal sapore nazionalistico. Diciamo «nazione» più che «patria», giacché quest’ultima ha alle spalle un corredo d’idealità (si pensi al Risorgimento italiano) che non è dato rinvenire nei proclami dei nazional-populisti. Qui echeggiano piuttosto parole d’ordine ambigue, che riportano non alla mazziniana «giovine Europa» (fondata dal patriota genovese a Berna nel 1834) ma alle teorie sulla «limpieza de sangre» elaborate dagli spagnoli in età rinascimentale per espellere dalla società ebrei e musulmani.

Per il Ticino (per la Svizzera italiana) la questione è di vitale importanza. Perché ora si vorrebbe coltivare un’italianità spuria, un’italianità senz’Italia, come se fosse possibile immaginare un’autarchia cultural-spirituale «fatta in casa», slegata dal grande tronco materno da cui diparte il nostro sistema linfatico: precisamente quell’italianità che si vorrebbe tanto valorizzare, esportare, diffondere sotto i portici della capitale della Confederazione ma che poi affoga silenziosamente nella Realpolitik quotidiana solo per non spiacere alle falangi dei neo-nazionalisti. Questo sì che non è un buon passaporto; né unico né doppio, solo un viatico vuoto che si traduce in abdicazione, in un abbandono non richiesto della nostra filogenesi italica.