Italia, bella e fragile

/ 07.11.2016
di Aldo Cazzullo

Il terremoto di domenica 30 ottobre 2016 è una delle peggiori catastrofi della storia europea. L’impatto all’estero non è stato altrettanto grande perché non ci sono stati morti. Se ne conterebbero a migliaia, se non fossero stati sgomberati prima decine di paesi già feriti dai terremoti precedenti, e ora letteralmente rasi al suolo.

Serve un grande piano di investimenti pubblici e privati per farli risorgere. C’è un pezzo di Italia da ricostruire, come dopo una guerra. Sarà la sfida di una generazione.

C’è un’Italia di cui gli italiani si accorgono soltanto quando muore, o rischia di farlo. Un Paese di piccole patrie, di borghi nascosti, ognuno dei quali però custodisce un tassello della memoria nazionale.

Con la tragedia di agosto si è scoperto che uno dei cibi più noti al mondo era nato in un paese che ora non esiste più: Amatrice. In questi giorni si è temuto per il manoscritto dell’Infinito di Leopardi, messo in salvo dal museo di Visso, mentre tremavano anche Recanati, la casa del poeta, e Camerino, la cittadella degli studenti. Il terremoto ha rivelato memorie remote e poli di avanguardia, microcosmi dove le vestigia etrusche sono custodite accanto al centro di ricerca sul cuore artificiale, nell’Emilia dove la terra continua a tremare come in tutto il Centro Italia.

Il Paese è impaurito. Le ragioni della sua bellezza sono le stesse della sua fragilità. Sull’Italia che si riaffaccia dopo la peggior crisi della storia recente pare accanirsi un destino avverso. Si attende un ritorno alla normalità che non viene e non verrà; perché in Europa non viviamo un tempo normale.

Eppure l’Italia dei borghi mostra una tempra che si credeva perduta. Una rete di solidarietà che funziona. Una classe dirigente locale di sindaci che hanno la fiducia delle loro comunità. Un Paese che resiste. Questo non cancella, anzi acuisce la rabbia per la trascuratezza con cui si è costruito in questi anni, con cui si è abbandonata la cura del territorio. L’indignazione è sempre un sentimento positivo, se si accompagna alla capacità di reazione.

Il terremoto riguarda tutti gli italiani non solo perché si è sentito da Venezia a Bari, da Bologna a Roma. E non solo perché la paura e la resistenza esprimono bene il sentimento collettivo dell’epoca che è data in sorte a noi europei. Se paesi che pochi avevano sentito nominare appaiono ora familiari, è perché l’identità nazionale è più profonda di quel che pensiamo. Perché gli italiani sono quasi tutti nipoti di contadini o di artigiani, e quindi quei borghi appartengono un po’ a tutti. Ci si sente un po’ tutti cacciati da casa, nel vedere le immagini degli sfollati, tra cui moltissimi anziani, che dividono un tetto provvisorio con i figli degli immigrati, i nuovi italiani. E le crepe che si allargano nei muri delle torri e delle chiese ricordano l’affresco del Cattivo Governo, in cui Ambrogio Lorenzetti mise in guardia i senesi dalle conseguenze della discordia e dell’inerzia.

Ricostruire «com’era e dov’era» – come fecero i veneziani con il campanile di San Marco, come hanno fatto i frati e i restauratori di Assisi con gli affreschi di Cimabue nella basilica di San Francesco – non diventa soltanto un fatto urbanistico, ma una scelta di civiltà. Raccogliere la richiesta d’aiuto delle popolazioni colpite è anche il modo per rispettare anche sé stessi.

L’Italia può imparare a convivere con il terremoto se avrà i mezzi morali e materiali per riparare i danni e prevenire quelli prossimi venturi. Questo richiede un grande progetto, che può essere un’occasione non solo per mettere in sicurezza il territorio ma per ricucire il tessuto sociale, ripopolare i borghi, far vivere i centri storici, riportare fiducia nell’avvenire.

Se l’Europa non lo capisse, se non si rendesse conto che la preoccupazione e l’urgenza sono la cifra dell’Italia di oggi, se l’arroganza burocratica di Bruxelles ostacolasse anziché aiutare, il discredito che già ha accumulato lasciando sola l’Italia nell’accoglienza ai migranti si farebbe irreparabile.

Purtroppo finora l’Europa si è limitata a girare la testa dall’altra parte, dicendo che il governo di Roma potrà scorporare i danni del terremoto dal calcolo deficit-Pil. Ma è troppo poco. L’Europa dovrà essere in prima fila nella ricostruzione. Altrimenti in Italia nessuno vorrà più sentire parlare di Berlino e di Bruxelles.