Cos’è che accomuna Voltaire, Carlo Collodi, Pablo Neruda, Italo Svevo, Umberto Saba e Alberto Moravia? Nessuno di questi nomi è quello anagrafico: si tratta di pseudonimi. La letteratura pullula di false identità, di scrittori che si celano dietro maschere onomastiche, da Senofonte fino a Elena Ferrante. «La pratica e persino il culto dello pseudonimo non sono mai stati popolari come oggi», scrive Mario Baudino, autore di un racconto-saggio dal titolo Lei non sa chi sono io (Bompiani) che merita il massimo dei voti d’aria per la notevole mole di informazioni che fornisce e per l’eleganza della narrazione. L’epidemia del nome falso si è imposta con i blog, dove celandosi dietro il cosiddetto «nickname» ciascuno può dire ciò che vuole, con licenza di spararla grossa in forma rigorosamente anonima. È la (discutibilissima) democrazia del web.
Nell’ambito letterario è una consuetudine remota, che nei secoli (specialmente nel ’600) ha generato numerosi dizionari sull’argomento. Ma il vero campione è Stendhal, ovvero Henri Beyle, che nella sua carriera ha collezionato circa 350 pseudonimi, il doppio di Voltaire, considerato uno dei più prolifici e fantasiosi nell’inventare autonominazioni fasulle. Per Stendhal, cambiare nome è, secondo il suo massimo studioso, Jean Starobinski, «un’alterazione volontaria del sistema dei valori nominali per dominarlo meglio e goderne di più»: un modo per moltiplicare le proprie vite possibili (qualcosa di simile fece Fernando Pessoa con i suoi «eteronimi»), ma anche un rifiuto dell’identità imposta, uno scacco al padre, Chérubin Beyle, avvocato e proprietario terriero detestato per l’avidità borghese.
Non mancano gli esempi di scrittori che a furia di adottare identità sempre diverse sembrano dirci: io non so chi sono io. Ma a volte le ragioni sono più evidenti: è per aggirare le probabili noie contro la sua satira sferzante che Samuel Langhorne Clemens decide di firmarsi Mark Twain, prendendo in prestito dai battellieri del Mississippi il grido con cui segnalavano le profondità dei fondali («marca due!», cioè due braccia, l’unità di misura corrispondente a due metri). I travestimenti per protezione, nell’Ottocento, interessano molto le donne che vogliono pubblicare sì evitando lo scandalo e magari mascherandosi da uomini (vedi le sorelle Brőnte), ma è ancora più ovvio, nel 1942, il cambio di identità di Natalia Ginzburg in Alessandra Tornimparte per sfuggire alla censura antisemita.
Eric Arthur Blair diventa George Orwell (dal nome del fiume che scorre nella contea inglese di Suffolk), rifiutando un cognome da cui si poteva intuire l’estrazione sociale (alta) della sua famiglia: lo fa per potersi immergere più facilmente nel mondo del proletariato in cui si propone di indagare come giornalista e scrittore. Pseudonimo come una sorta di tuta mimetica. Non è questo il caso di Romain Gary (nome falso), con cui Baudino (nome autentico) apre il suo libro: pilota di guerra, eroe gollista, carattere spavaldo, intrepido, sopravvissuto a diversi incidenti aerei, dandy dal carisma irresistibile per le donne, grande scrittore nato in Lituania come Roman Kacew da famiglia ebrea e portato bambino in Francia da sua madre Nina, Gary si uccide a 66 anni nel suo appartamento parigino il 2 dicembre 1980 con un colpo di pistola. Due giorni prima ha spedito un breve memoriale al suo editore, Gaston Gallimard, chiedendogli di pubblicarlo postumo. Il titolo è Vita e morte di Émile Ajar e si chiude con un saluto quasi irridente: «Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie». Ajar è stato, nei suoi ultimi sei anni, il doppio di Gary, il cui successo compie in pieno le profezie di grandezza pronunciate dalla madre: morta nel ’41, Nina, per non turbare il figlio impegnato in guerra, ha affidato una serie di lettere a un amico perché le spedisca a Romain. Che le riceve postume per quattro anni senza sapere che la madre non c’è più. L’ultima lettera dice: «Figlio mio, tieni duro, sii forte. Mamma». Il figlio non avrebbe tenuto duro, stanco, nonostante gli pseudonimi, del fatto di essere rimasto prigioniero di una «sola faccia», quella dello scrittore famoso costruita dai lettori, dalla critica e, a onor del vero, anche da lui stesso.
Altri casi, altre ragioni che spingono a cambiar nome? Doris Lessing mandò un manoscritto al suo editore abituale firmandosi Jane Somers per il gusto di vedere la reazione: Jonathan Cape lo rifiutò e quando Knopf decise di pubblicarlo, con il falso nome, il romanzo non ebbe alcun riscontro. Anche JK Rowling, la «madre» di Harry Potter, ebbe la stessa tentazione e mandò alle stampe un romanzo con un nome maschile, Robert Galbraith. Fu smascherata quasi subito e quella che aveva immaginato come un’«esperienza liberatoria» naufragò per l’imprudenza di un funzionario editoriale. Nessuno si era accorto del libro, ma quando si seppe che Galbraith era lei, il pubblicò impazzì e fu un trionfo. Dal tonfo al trionfo ci vuol poco. Basta insinuare: lei non sa chi sono io, e a volte non lo so neanch’io…