In Turchia, stabilità solo apparente

/ 23.07.2018
di Peter Schiesser

Una settimana dopo aver assunto il potere assoluto, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha posto fine allo stato di emergenza, rinnovato 7 volte dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016. Una buona notizia? La Turchia può lentamente ritrovare una sua normalità? No, Erdogan semplicemente non ha più bisogno di norme straordinarie: per decreto – da oggi Erdogan può persino stravolgere la Costituzione a colpi di decreto – ha introdotto un nuovo corpo di leggi che gli garantiscono più o meno lo stesso potere arbitrario di incarcerare e cacciare dagli impieghi pubblici i suoi avversari. Da colui che sulla terra detiene il maggiore potere sul proprio paese non ci si poteva aspettare altro.

Sì, Erdogan ha più poteri di Trump, di Putin, forse anche di Xi Jinping: detiene ogni potere esecutivo e legislativo, presiede i gremi che nominano e destituiscono i vertici militari, che sanzionano e promuovono gli impiegati delle istituzioni pubbliche e private, nomina il presidente della banca centrale, controlla personalmente le università e le istituzioni culturali, la giustizia gli è sottomessa, i media quasi tutti, i sindaci delle grandi città (non tutti schierati dalla sua parte) sono esautorati dai governatori nominati da Erdogan. E di questo potere fa uso; per esempio, ora ha messo a capo del ministero delle finanze suo genero Berat Albayrak e cacciato dal governo Mehmet Simsek e Naci Agbal, le ultime due figure che riuscivano a difendere una stabilità economica-monetaria; a capo del ministero della sanità ha messo il suo medico personale. Nella Turchia di oggi contano due fattori: la parentela e la lealtà assoluta. Il resto si può aggiustare con la propaganda. Per ora sta funzionando, nonostante la lira turca abbia perso un terzo del suo valore e l’economia cresca solo al prezzo di un forte indebitamento generalizzato.

Infatti, Erdogan riesce tuttora a convincere i suoi elettori che il deprezzamento della lira è la conseguenza di un complotto internazionale. Teoria alla quale associa quella secondo cui sono i tassi alti a provocare l’aumento dell’inflazione, e non viceversa. In fondo, l’economia turca con Erdogan è cresciuta molto, in questi 15 anni. Ma la propaganda di governo nasconde il fatto che negli ultimi anni la crescita è stata sostenuta da un forte indebitamento pubblico e privato, che per le aziende private è calcolato in un debito verso l’estero di oltre 300 miliardi di dollari, divenuto ancora più insostenibile con la perdita di valore della lira turca. Se poi aggiungiamo gli investimenti statali per sostenere la crescita, compresi quelli faraonici come il futuro aeroporto di Istanbul (per 12 miliardi di dollari), la solidità dell’economia turca risulta più apparente che reale. Alcuni analisti internazionali considerano già la Turchia come il perfetto, prossimo «Stato fallito».

Eppure non è sempre stato così. Nei primi cinque anni di governo Erdogan aveva concretizzato le ricette del Fondo monetario internazionale imposte dopo la crisi del 2001, ristrutturando lo Stato e l’economia pubblica, riducendo il debito, favorendo un aumento della produttività e della trasparenza (con minore corruzione); aveva anche abolito la pena di morte, dato più libertà di espressione, migliorato la sanità e la scuola, creato le condizioni per un’Adesione all’Unione europea. Insomma, un esempio di successo. Tuttavia, man mano che il suo potere cresceva, Erdogan ha perso il contatto con la realtà. Oggi si crede davvero un novello sultano e si sente superiore a qualsiasi legge, anche a quelle economiche. Il finale ce lo si può immaginare: un brusco risveglio alla realtà.