In porta c’era una donna

/ 17.06.2019
di Maria Bettetini

Ecco, ci risiamo. È esplosa la mania del calcio. Finisce la Nations League, comincia il cuore degli Europei, e poi assistiamo al fervore sorto intorno alle nazionali femminili che combattono per la coppa del mondo. Nella comunità dei filosofi, vivi o morti, quest’ultima è la notizia che più li sconvolge, e li fa diventare quasi dei bulli. «Sì, e ora le donne vorranno partecipare magari alle Olimpiadi» e tutti giù a ridere, alle parole di Platone. «O magari comandare in casa anche se non sono grandi ereditiere», commenta Aristotele, tra le risate di tutti. Epicuro cerca di mediare, a me non importa se nel mio Giardino vengono a studiare maschi o femmine, ma questo non fa smettere le risate a crepapelle, perché qualcuno gli dice: sì infatti nel tuo Giardino ci sono donne, ma sono «quelle» donne, che tutti frequentano per ben altri motivi, a pagamento.

Stanno per prendere la parola Montaigne e Kant, ma vengono interrotti da uno sciame di donne indiavolate (arrivano, arrivano, lo vedete come sono isteriche, afferma sottovoce Freud, non esagerando perché queste «isteriche» fanno un po’ paura). In difesa, le innominate, quelle che hanno potuto pensare, ma non esprimere il loro pensiero, fino al secolo scorso, quando qualcosina è cambiato. La prima belva che prende la parola è Ipazia, furente proprio perché intesa come filosofa martire da maschi pentiti. Certo, grida la ottima retore, facile fare di me una martire e chiudere così la vergogna di secoli di soprusi.

Ma ascoltatemi bene: io sono una matematica, non una filosofa. Perché nel tardo Impero, noi ultimi platonici, così intendevamo la filosofia, una sorta di percorso matematico che ci portasse dai molti all’Uno, attraversando le idee e i numeri. Di me non sapete nulla, avete qualche paginetta in cui si racconta di come fui lapidata da uomini mandati da Cirillo di Alessandria, in difesa della dottrina cristiana. Macché dottrina e dottrina, e si volge alla squadra che sta iniziando a palleggiare con energia.

Questi poveri uomini hanno solo il piacere virtuale dell’apparenza di potere, non sopportano di essere spodestati da una «femmina», che tra l’altro oltre a partorire, gestire la casa, crescere i figli a volte pensa e molto bene. Ma intanto entriamo nella squadra di calcio, che vede schierata una grande amica di Ipazia, Mileva Marić: la prima signora Einstein che fu anche la prima donna che studiò fisica al Politecnico di Zurigo. Il suo nome è sconosciuto, per non dire del confronto con Albert, che la lasciò per una cugina e gli Stati Uniti.

Però sembra, secondo studi di storici di genere maschile, che Mileva abbia forse aiutato non poco il marito, negato per la matematica. Sembrerebbe non volendo rendere pubblico questo aiuto, nella certezza di essere «ein Stein», un’unica pietra, un’unica cosa. Poi ciao, Albert va negli Stati Uniti e dopo anni regala alla prima moglie e al figliolo ammalato parte o tutto il denaro del Nobel. Però Mileva non può giocare nella squadra di calcio, è nata come la sorella, con un’anca non simmetrica, quindi zoppica. Ma è un ottimo quarto uomo (o un’ottima quarta donna).

Tra le più agguerrite ci sono le filosofe del Novecento. Prendiamo Hannah Arendt, innamorata di quel nanerottolo con la testa grossa di Martin Heidegger, ma mai ufficialmente entrata nella famiglia – dove tra l’altro anche la moglie Elfride non si fece mancare un figlio naturale spacciato per figlio di Heidegger fino a pochi anni fa. Si diceva di Hannah, ottima punta della squadra, mossa come da un rancore. Non ce l’ha con Martin, ma con tutti gli uomini che dopo aver letto La banalità del male l’avevano accomunata al maestro negli anni di appoggio al Nazismo.

Per un libro che spiegava come Eichmann soprintendesse al traffico dei treni, che avrebbero dovuto contribuire alla soluzione finale deportando ebrei e uomini sgraditi, come un qualunque impiegato delle ferrovie. In panchina da sempre, Simone Weil, dedita a digiuni e sofferente di emicranie, lanciata per le grandi cause ma pasticciona nella pratica, come quando andò a combattere i franchisti in Spagna e fu subito rimpatriata perché uno dei primi giorni si ustionò con un pentolone di minestra. In panchina, in panchina.

Per fortuna gioca un elemento che non ha paura di niente e di nessuno, Ildegarda di Bingen. Avrà avuto una vocazione monastica, ma a quei tempi vivere in monastero era l’unica via per evitare matrimoni forzati e mariti spesso violenti. Ildegarda divenne la badessa del monastero di Bingen, e poté dedicarsi allo studio: della musica, della letteratura, dell’anatomia, argomento ancora visto con sospetto nell’XI secolo. D’altra parte Ildegarda raccontava di avere avuto delle visioni che le mostravano come fosse fatto il corpo umano. Chi poteva opporsi alle visioni? Quale miglior terzino si poteva mettere in difesa della squadra delle filosofe?