In nome dello stato di diritto

/ 30.09.2019
di Peter Schiesser

La battaglia per la messa in stato di accusa del presidente degli Stati Uniti è cominciata. Visto che è una battaglia politica, sulla quale deciderà in ultima istanza il Senato in salde mani repubblicane, alla fine è possibile che Donald Trump se la caverà (vedi Rampini a pagina 32). Per i democratici, che controllano la Camera dei rappresentanti, è una partita delicata, con enormi rischi. Ma potevano, i democratici, evitare di aprire la procedura che porta all’impeachment? La trascrizione della telefonata di Trump al neo-eletto presidente ucraino Zelenski e la pubblicazione della denuncia del whistleblower dei servizi segreti americani ai presidenti delle Commissioni di Camera e Senato che supervisionano l’operato dei servizi di informazione rivelano fatti così gravi – fatti, non supposizioni – che far finta di nulla avrebbe creato danni ancora maggiori alla credibilità istituzionale del ruolo di presidente degli Stati Uniti: ci sono limiti invalicabili, definiti dalla Costituzione, e fra questi c’è quello di non utilizzare la politica estera per scopi personali, anche da parte del presidente. Ed è quello che è successo.

Che all’interno della Casa Bianca e nella sua orbita ci siano molti funzionari che pongono al di sopra di tutto la lealtà ai principi della democrazia americana e dello stato di diritto, lo dimostra il fatto che alla base della denuncia del whistleblower ci sono le confidenze circostanziate, corrispondenti, che gli hanno fatto numerosi funzionari presenti all’ascolto della telefonata e informati degli atti e delle decisioni che nei mesi precedenti sono state prese in merito al Kiev-gate. E che quella telefonata non abbia precedenti per la sua gravità lo dimostra anche il fatto che il giorno dopo membri dell’Amministrazione Trump hanno ordinato che la registrazione venisse trasferita su un server inaccessibile per renderla segreta.

Brevemente i fatti: il 25 luglio Trump e Zelenski (nella foto) si telefonano, il presidente americano gli chiede il favore di indagare sulle accuse di corruzione rivolte all’azienda ucraina Burisma, nel cui board era presente Hunter Biden, figlio del candidato democratico alle presidenziali Joe Biden, e lo invita a mettersi in contatto con il suo avvocato personale Rudolph Giuliani e con il ministro della giustizia William Barr. Una settimana prima della telefonata, Trump aveva ordinato di bloccare il credito di 391 milioni di dollari in aiuti militari all’Ucraina, ciò che lo rende sospetto di aver voluto far pressione sul governo ucraino affinché cedesse alle sue richieste di indagare sui Biden. Come nascono questi sospetti sui Biden? In gennaio e febbraio, Giuliani incontra il procuratore generale ucraino Yurij Lutsenko, il quale a fine marzo dichiara che il suo predecessore era stato licenziato perché stava indagando sulla Burisma, e di essere in possesso di informazioni secondo cui nel 2016 i democratici statunitensi avevano interferito nelle presidenziali americane. Lutsenko farà poi marcia indietro e si rivelerà poco credibile, il caso si sgonfia. Ma l’Amministrazione Trump non demorde: esonera l’ambasciatrice americana a Kiev, che aveva smontato le accuse, porta avanti i contatti con l’entourage di Zelenski, fino alla fatidica telefonata. Tutti fatti certificati da dichiarazioni pubbliche e dalle rivelazioni dei funzionari coinvolti o a conoscenza dei fatti. L’impeachment di Trump, convinto di non aver fatto nulla di male, di diverso dal suo solito, è un atto dovuto a questo punto.

Risultato? I seguaci di Trump e la maggioranza repubblicana al Senato faranno quadrato attorno al presidente, gli Stati Uniti si spaccheranno sui fondamenti del loro stato di diritto.