In nome del popolo

/ 13.02.2017
di Peter Schiesser

In tempi di crescente populismo, di nazionalismi, di politici che affermano di parlare in nome del popolo, c’è una domanda che potrebbe essere utile porsi: che cos’è il popolo? Nella visione del  sedicente «uomo forte» è una comunità che pensa, sente, vive all’unisono con il proprio leader, i suoi valori, le sue idee, le sue azioni. Nella realtà un popolo omogeneo non esiste. Non è mai esistito. Gli «uomini forti» che in passato hanno provato a forgiarlo nella realtà si sono scontrati con ostacoli che non sono riusciti a superare (indenni): siccome l’unanimità non esiste, chi sono gli individui che non è possibile catalogare fra il «popolo tutto d’un pezzo», un non-popolo? E che fare di questi cittadini recalcitranti a uniformarsi: sottometterli, eliminarli, poiché tollerarli significherebbe annacquare l’idea di popolo? Inoltre, come rispondere al popolo di un paese vicino che magari si sente ancora più popolo di noi e sarebbe disposto a darci una lezione con le armi per dimostrarlo? La storia d’Europa fornisce innumerevoli esempi, tutti a senso unico, di come sono andati a finire quei tentativi. 

Eppure, quando si è convinti che le cose vanno male (anche se decisamente peggio vanno in molte altre parti del mondo), l’immagine di un salvatore della patria che sappia restituirci una mitica età dell’oro e un’innocente identità primordiale fa sempre ancora breccia. Non sottovalutiamo l’influsso dei vari Marine Le Pen, Gert Wilders, Matteo Salvini, Frauke Petry – anche alla luce di quanto vanno sperimentando autocrati come Viktor Orban, Recep Erdogan e governi reazionari come quello polacco. Ma se trovano crescenti se non già ampi consensi, il vero problema è dato da chi trova conforto e speranza nella loro visione del mondo, nei loro slogan e nelle loro promesse. Il grosso problema è che si può riuscire a farsi eleggere alla guida di grandi paesi dell’Occidente spacciando illusioni per soluzioni, senza indicare come raggiungere gli obiettivi, o almeno non in modo coerente. Significa che una parte della cittadinanza ha abdicato al senso critico in cambio di un desiderio di certezza. Ma non limitiamoci a stigmatizzare questo fatto, interroghiamoci sui motivi che portano questi cittadini a non avere più fiducia nell’ordine costituito, nelle istituzioni, nei partiti storici e nei media tradizionali, in sintesi nelle élite. 

Forse occorre innanzitutto riconoscere che nei decenni passati la democrazia è andata avanti senza dover contare troppo sul senso critico dei cittadini. Fintanto che l’economia cresceva, bastava ingraziarsi gli elettori con qualche promessa, toccando sapientemente le corde della «pancia» (che con il tempo è diventata sempre più agitata e esigente). Spiegare come andava veramente il mondo, la sua complessità, le contraddizioni cui non si poteva sfuggire (per esempio, che la ricchezza del nord poggiava pur sempre sulla povertà del sud), non era strettamente necessario. 

Per contro, ora che il brontolìo della pancia di molti cittadini è salito a livelli di guardia, la democrazia può diventare lo strumento per cancellare i caposaldi delle società liberali moderne: se un «uomo forte» viene eletto democraticamente, può tentare di limitare le libertà individuali, imporre uno stato autoritario, discriminare i diversi e le minoranze, in nome di un interesse superiore (quello del popolo). 

Eppure, pur non nascondendo né minimizzando le oggettive difficoltà in cui versano le democrazie occidentali, c’è ancora motivo di sperare che un sano senso critico, cresciuto nel confronto quotidiano con la complessità di una società moderna, sia ancora maggioritario in Occidente. Le elezioni in Francia, in Germania, in Olanda e probabilmente presto in Italia lo confermeranno o lo smentiranno.