La piazza anti Brexit è tornata piena, pienissima, con le sue bandiere europee e quel monito, «stop», che scandisce rumoroso un dibattito complicato e spesso feroce. L’ultima manifestazione contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è stata organizzata il 20 ottobre a Londra dal movimento People’s Vote. Quando è nato, questo gruppo assomigliava a molti altri che si sono costituiti dopo il referendum del 2016, figli di un rimpianto che mai si è sopito: come tutti gli altri, People’s Vote era molto attivo, ma senza un leader e senza un seguito politico forte e, per questo, considerato inefficace. Per di più promuoveva una cosa quasi indicibile: ricontiamoci, vediamo se è vero che abbiamo cambiato idea. Un altro voto in un Paese spaccato a metà, tormentato e indeciso, incastrato in una decisione popolare? Pareva una proposta quasi sadica, certamente rischiosa. Ma mentre le alternative scivolavano via, e tutti, governo, opposizione, terzisti, si indebolivano, il People’s Vote si ingrossava, si insinuava anche nelle certezze granitiche di chi era pro o contro la Brexit, diventava popolo. Quel popolo che in un sabato di cielo azzurro si è riunito enorme a Londra, e ha fatto capire che laddove tutti avevano fallito, con quelle sigle disparate e confuse, lui invece ce l’aveva fatta.
Ora che la piazza ha fatto sentire la sua voce, forte ed entusiasta, si ritorna alla politica del palazzo. Theresa May, premier inglese, ha chiesto al suo partito di restare unito, di abbandonare le sue solite manie golpiste, e di lasciarla trattare con l’Europa: mancano poche settimane, e il verdetto di questo negoziato sarà dato. Gli europei, che non hanno risparmiato critiche anche pesanti, dicono che vogliono provare davvero a trovare un accordo: l’ipotesi del «no deal» spaventa tutti. Ma è necessario un compromesso molto grande: Londra deve rinunciare alla completa sovranità su una parte del suo regno – l’Irlanda del nord – e Bruxelles deve concedere all’Inghilterra il fatto che la situazione nordirlandese è eccezionale e quindi deve avere un trattamento eccezionale. In entrambi i casi, ci vuole un enorme sforzo diplomatico, e soprattutto a Londra ci vuole un’unità e un consenso che finora non ci sono mai stati. E soprattutto da parte dei Tory ci vuole pazienza, e una linea di credito aperta nei confronti della May: un inedito in questo romanzo straziante che è diventato la Brexit.
Poi c’è il popolo. Né i conservatori né i laburisti sono a favore di un secondo referendum, anche se i secondi sono stati come al solito sufficientemente ambigui, dicendo che sono aperti a ogni opzione. In realtà la loro opzione è una, e non è il referendum: il Labour vorrebbe bocciare in Parlamento qualsivoglia accordo la May riesca a trovare con Bruxelles e poi indire nuove elezioni. Lo slogan di Jeremy Corbyn e dei suoi è: noi siamo capaci di negoziare, a differenza della May; votiamo, vinciamo e poi ci vediamo a Bruxelles. Sulle capacità negoziali del Labour ci sarebbe da discutere a lungo: le alternative della Brexit sono invero poche, e l’unico modo per accordarsi è quello di garantire la permanenza nel mercato unico e nell’unione doganale che come si sa è una Brexit talmente soft che per molti non è nemmeno una Brexit. Per di più, il Labour è da sempre contrario alla libertà di circolazione delle persone, che invece sarebbe garantita dalla permanenza nel mercato unico: la posizione negoziale del Labour insomma non è molto stabile.
Ma in questo momento la variabile più importante è il tempo. Si deve aspettare che la May finisca il negoziato con l’Europa e che torni in Parlamento – sempre ammesso che nel frattempo i Tory non decidano di sfiduciarla. Si deve poi votare in Parlamento, e se l’accordo dovesse essere buono alcuni laburisti potrebbero decidere di votarlo, e alcuni conservatori invece di bocciarlo: insomma, ci si deve contare ancora. Poi nel caso di una bocciatura del piano May, bisognerebbe organizzare un voto, che sia un referendum o un’elezione, e nel frattempo si avvicinerebbe la data del 29 marzo 2019, che è l’inizio formale della Brexit. Si potrebbe fare slittare la scadenza, ma ci vuole sia la richiesta da Londra sia il consenso europeo, e anche per questo ci vuole tempo. Nel frattempo, la May e l’Ue stanno cercando di dilatare i tempi della transizione post Brexit. E mentre si contano i giorni sul calendario, il People’s Vote gioisce: forse non ci sarà un referendum, forse non ci sarà un’elezione, ma qualcosa è accaduto. La Brexit sembra più lontana, qualsiasi forma riuscirà ad avere.