Il discorso sulla carenza di imprenditorialità dei ticinesi è forse uno dei più vecchi tra quelli affrontati da chi, negli ultimi 250 anni si è occupato dello sviluppo della nostra economia. Il punto di partenza sono le osservazioni sul carattere dei ticinesi del pastore zurighese Schinz, che aveva visitato quelle che allora si chiamavano le fogtie italiane, negli anni Settanta del Settecento. Schinz attestava loro acutezza e capacità creativa ma incapacità di portare a termine i progetti che avrebbero voluto intraprendere. Un paio di decenni dopo, il canonico Ghiringhelli aggiungeva un’altra tessera alla discussione precisando che i ticinesi erano in grado di manifestare la loro industriosità (ecco un termine molto più italiano di quello di imprenditorialità) solo fuori dal paese natìo. Secondo lui: «Se il ticinese dimostra all’estero un’industriosità fuori del comune è perché esso diviene, coll’abbandonare il suolo natìo, un altro uomo». Il tema delle carenze imprenditoriali dei ticinesi fu poi sviluppato, nel Novecento, in un’altra chiave.
Le dimensioni limitate del paese e il suo isolamento erano altrettanti ostacoli che si frapponevano alla creazione di aziende e quindi all’affermarsi di una classe imprenditoriale locale. Il che non impedì però alla Camera di Commercio, negli anni Trenta dello scorso secolo, di protestare contro la penetrazione economica, ossia contro il fatto che imprenditori della Svizzera tedesca venissero a creare aziende in questo Ticino così carente di attrattiva. La situazione si rovescia negli anni Cinquanta del Novecento quando la politica, in materia di imprenditorialità, diventa invece proprio quella di attirare, nella misura del possibile, capitali e imprenditori da fuori Cantone. Questa politica di fatto riconosceva che i ticinesi, per tare di carattere o per gli ostacoli, posti dalla natura e dalla frontiera, o per altri fattori ancora, non erano imprenditori. Arriviamo così ai giorni nostri o, per essere più precisi, ai decenni più recenti dove, per iniziativa dello Stato e di privati, ha cominciato a diffondersi l’opinione che se i ticinesi non nascono imprenditori, lo possono però diventare seguendo corsi sull’imprenditorialità. Sull’esito degli sforzi intesi a formare nuovi imprenditori abbiamo fino ad oggi poche informazioni. È vero che il numero delle aziende in Ticino è aumentato, almeno fino al 2011/2012, in modo sostenuto. È vero anche che nelle aziende ticinesi, incluse quelle del secondario, troviamo oggi, nei posti direttivi, molti più ticinesi di quanto non era il caso 50 anni fa. Però queste osservazioni sono istanze singole che non danno modo di apprezzare la portata del nuovo fenomeno imprenditoriale e soprattutto non consentono confronti. Per ottenere informazioni più ampie possiamo però rifarci a due inchieste che si tengono a livello nazionale da qualche anno. Si tratta dei rilevamenti del GEM, ossia del «Global Entrepreneurship Monitor» e di quelli della «Global University Entrepreneurial Spirit Students’Survey». Ambedue le inchieste misurano la vocazione all’imprenditorialità e consentono, tra l’altro, qualche confronto tra le grandi regioni del paese.
Dei loro risultati, per molti aspetti sorprendenti, ci informa Andrea Huber in un interessante articolo, apparso nella rivista Dati dell’ottobre dello scorso anno. L’inchiesta condotta tra gli studenti universitari (per il Ticino hanno partecipato a questa inchiesta un po’ più di un centinaio di studenti della SUPSI) chiede ai partecipanti di specificare cosa intendono fare al momento in cui terminano gli studi e 5 anni più tardi. Il dato interessante è quello che concerne il medio termine. Il 38 per cento degli studenti della SUPSI dichiara infatti che, 5 anni dopo il termine degli studi, vorrebbe essere imprenditore. Le percentuali per gli studenti della Svizzera francese, rispettivamente della Svizzera tedesca, sono solo il 29,4 e il 20%. Delle regioni linguistiche della Svizzera, la Svizzera italiana è dunque quella che dimostra di avere, potenzialmente, più vocazioni all’imprenditoria.
Anche il GEM rileva le intenzioni di carriera con un campione, in Ticino, di 500 persone. Stando ai risultati di questa inchiesta, da noi, il 64,9 per cento dei partecipanti considera l’imprenditorialità come una buona scelta di carriera, contro il 60,7 per cento dei partecipanti nella Svizzera francese e il 30,3 per cento nella Svizzera tedesca. Qualcosa si sta quindi muovendo, riguardo all’imprenditorialità in Ticino. Sembra che la stessa sia diventata una scelta di carriera significativa. Prima di eccedere nell’ottimismo, ricordiamoci però quello che affermava il pastore Schinz e cioè che i ticinesi sono purtroppo incapaci di portare a termine i progetti che vorrebbero intraprendere.