Mentre l’America di Donald Trump fatica a trovare 30 miliardi di dollari per costruire un muro con il Messico che la protegga dagli immigrati, la Cina di Xi Jinping investe a piene mani miliardi di dollari per realizzare una nuova Via della Seta che la congiunga all’Europa e all’Africa attraverso il Medio Oriente – fra i 500 e gli 8’000 miliardi di dollari, a seconda se si sommano i progetti che espandono il progetto al Pacifico, all’America Latina e all’Artico. È così che muore un impero? È così che ne nasce un nuovo? Le ragioni di una decadenza e di un’espansione sono molteplici, complesse, che si sommano nel tempo, e non sono riducibili a poche benché significative cifre e immagini. Tuttavia, alla base di un impero c’è sempre una visione, un modello che vuole essere imitato, un progetto unificante, e oggi si deve pur ammettere che il sogno americano sta impallidendo nel resto del mondo, mentre molti paesi e governanti si sentono attratti dal sogno cinese. E la Belt and Road Initiative, la nuova Via della Seta cinese, è lo strumento perfetto per rendere concreta la visione geopolitica della nuova Cina.
È ancora difficile da interpretare, questa visione: è la base di una strategia imperialista? È un modo per esportare il surplus produttivo (nelle costruzioni, nella logistica) e per assicurare lavoro a ditte e lavoratori cinesi all’estero? È un’operazione di marketing politico che tende anche a nascondere le sotterranee divisioni interne alla società cinese? Probabilmente, è un po’ di tutto questo. Sta di fatto che questo colossale progetto politico-economico non può essere ignorato, qui in Occidente, anzi va capito il più a fondo possibile per sapere come rapportarvisi. Ricordiamoci che, secondo le cifre ufficiali, le future Vie della Seta coinvolgeranno 70 Stati, con una popolazione di 4,8 miliardi di persone, che contribuiscono al 65 per cento del Prodotto interno lordo mondiale (21 mila miliardi di dollari).
Certo, quando si constata che Paesi come Sri Lanka, Montenegro, Laos, Maldive, Kirgisistan cadono nella trappola dell’indebitamento (la Cina presta i capitali per realizzare le infrastrutture che le servono e se ne impossessa se il debito non viene onorato), perché vengono realizzare opere che non saranno mai redditizie per quei paesi (seminando il sospetto che qualche governante ci guadagni a scapito della propria popolazione), il disegno imperialista sembra evidente. Ma c’è dell’altro, qualcosa di più sottile, anche culturale: per decenni in Occidente abbiamo creduto che nel mondo le persone volevano libertà, diritti politici e umani, poiché con quelli sarebbe arrivato anche il benessere economico, in realtà oggi nel mondo sono molte le persone e i paesi che sono disposti a rinunciare a libertà, civili e politiche, di cui in passato non hanno mai veramente beneficiato, pur di avere più benessere. Se il soft power americano si è basato molto anche sullo stile di vita americano propagandato dal cinema e da altri media, come pure su strutture internazionali che facevano propri i valori etico-politici occidentali, il soft power alla cinese non compete sullo stesso piano e si concentra piuttosto sul modello di crescita economica che uno Stato autoritario è in grado di realizzare per uscire dalla miseria e far nascere un nuovo impero.
E poi, si sa: una visione e un progetto accattivante richiamano subito anche sostegno dall’esterno; la Belt and Road Initiative è un organismo aperto ai finanziamenti internazionali, che stanno già arrivando. Con Trump, invece, gli Stati Uniti si stanno chiudendo al mondo e sembrano puntare quasi soltanto sulla supremazia militare che ancora vantano. Ma questa non basta per mantenere un impero.