Impasse politica

/ 07.05.2018
di Aldo Cazzullo

La politica italiana si è infilata in un vicolo cieco. Il problema è che nessuno ha interesse ad allearsi con nessuno.

Il Pd ha una sola ma formidabile motivazione per fare l’accordo con i 5 Stelle: l’esigenza di evitare il voto anticipato (oltre che di salvare il seggio e per qualcuno il Ministero). Ma c’è una ragione almeno altrettanto valida che dovrebbe sconsigliarlo: relegare il Nord all’opposizione.

Le regionali in Friuli Venezia Giulia hanno confermato il dato emerso il 4 marzo. In tutto il Lombardo-Veneto, il centrodestra vince dappertutto, tranne a Milano centro. Non cambia molto in Piemonte e in Liguria, dove il Pd ha salvato tre collegi a Torino e i grillini altrettanti a Genova. Persino l’Emilia un tempo rossa ha visto prevalere l’alleanza a trazione leghista da Parma a Ferrara, con il Pd che ha salvato il collegio senatoriale di Modena per 37 voti. Di fronte a simili risultati nelle aree più avanzate del Paese, ulteriormente rafforzati dal test tra Udine e Trieste, l’idea di costruire un governo dei secondi e terzi classificati appare una forzatura ai limiti dell’azzardo.

Ovviamente ci sono anche altre ragioni. Un’alleanza Pd-Cinque Stelle avrebbe numeri estremamente risicati al Senato. E aprirebbe una contraddizione difficile da risolvere nella cultura politica dei due partiti. Nell’ansia di spiegare frettolosamente il crollo elettorale, il centrosinistra si è convinto che i suoi voti siano transitati al movimento di Grillo e Di Maio. Il che può anche essere vero, in particolare al Sud. Ma sono voti che difficilmente si prestano a essere incasellati nella lettura della tradizione novecentesca. I Cinque Stelle non sono la nuova sinistra. Sono e restano un movimento antisistema; non a caso la base preferisce a schiacciante maggioranza un accordo con l’altra forza sovranista, anti-establishment e anti-europea, la Lega. Per far digerire l’apertura al nemico naturale, il Pd, Di Maio si è inventato che non di alleanza con un partito si tratterebbe, ma di un contratto nell’interesse dei cittadini: un’esercitazione lessicale degna delle pagine più misteriose della Prima Repubblica.

Allearsi con i Cinque Stelle servirebbe solo a tamponare la crisi del centrosinistra e ad alienargli del tutto l’elettorato del Nord, garantendo una formidabile arma di propaganda a Salvini e allo stesso Berlusconi. La resa dei conti elettorali sarebbe solo rinviata; e il prezzo da pagare non farebbe che crescere.

L’alternativa non è ritirarsi sull’Aventino; è affrontare le divisioni interne, individuando una linea condivisa e un leader nuovo. Che difficilmente potrà essere un nemico di Renzi; ma non potrà neanche essere un suo prestanome.

L’unico che ha interesse ad andare subito a votare è Matteo Salvini. Mentre Di Maio si è molto esposto in questi cinquanta giorni, e difficilmente potrebbe ripetere l’exploit del 4 marzo, il capo della Lega – divenuto di fatto il capo del centrodestra – sarebbe sicuro di crescere ancora, a scapito di Berlusconi.

Il presidente Mattarella però farà di tutto per salvare la legislatura. Già si parla di un incarico pieno alla presidente del Senato Casellati, che potrebbe far nascere un governo di centrodestra a forte tasso istituzionale con l’astensione del Pd. A meno che Salvini non decida di far saltare il banco e tornare alle urne. Ma senza una modifica alla legge elettorale, che preveda un premio di maggioranza, è difficile che le cose si chiariscano. E intanto la ripresa economica, mai particolarmente brillante, rallenta.