L’Europa non riesce a fermare i migranti e non riesce neppure a mettersi d’accordo su come gestire qualche decina di migliaia di persone. Non c’è una crisi migratoria in corso; c’è una crisi politica, interna all’Italia e alla Germania. E il nervosismo è evidente.
I leader politici di Italia e Francia non si erano trattati così male neppure quando si facevano la guerra. La dichiarazione del 10 giugno 1940 fu consegnata anzi in un clima quasi amichevole, con l’ambasciatore André François-Poncet che con preveggenza ammonisce Ciano: «I tedeschi sono padroni duri, ve ne accorgerete anche voi». Oggi il presidente francese parla di «lebbra populista» a proposito dell’Italia, e i due vicepremier lo attaccano tutti i giorni: per Di Maio è «il nemico numero uno» del nostro Paese, per Salvini è un «arrogante che beve troppo champagne».
È evidente: più Emmanuel Macron attacca il capo della Lega, più lo rafforza, almeno in Italia. Siccome «Manu» (ma guai a chiamarlo così in pubblico, vi rimprovererebbe con durezza come ha fatto con un ragazzino impertinente) è tutt’altro che uno sprovveduto, se insiste nel criticare Salvini è perché ha interesse a farlo.
Macron i populisti li ha in casa; ma non sono loro a fargli paura. Anzi, ne ha bisogno, per mantenere la sua centralità ed essere rieletto. Sa che in un ballottaggio con Marine Le Pen (o con sua nipote Marion) vincerebbe grazie ai voti del centrosinistra, e in un ballottaggio con Mélenchon vincerebbe grazie ai voti del centrodestra. Il suo regno sarebbe in pericolo se emergesse – più facilmente in campo neogollista che in quello socialista – una personalità credibile; che però all’orizzonte non si vede. Il macronismo è invece isolato in Europa, dove – tranne forse lo spagnolo Sanchez, che però è un premier a tempo – non ha sponde per il suo disegno europeista.
Ma la guerra di carta con il presidente francese, per quanto inutile e controproducente, non deve ingannare. Il bersaglio grosso di Salvini non è Macron; è Angela Merkel. Ovviamente non può farla cadere lui; ma ha simpatia per tutti quelli che – da Trump a Putin, dal gruppo di Visegrad al ministro dell’Interno tedesco Seehofer – la vorrebbero vedere nella polvere. Purtroppo gli amici di Salvini hanno interessi antitetici a quelli dell’Italia.
Seehofer e i bavaresi, proprio come l’austriaco Kurz e i governi di Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava, non soltanto non intendono ospitare la loro quota di migranti, ma vorrebbero rispedirci quelli sbarcati sulle nostre coste che sono riusciti ad andare altrove. A parole sono ovviamente tutti d’accordo nel voler combattere gli scafisti; a tremila chilometri di distanza, però. Per questo il compito di Conte, il debolissimo presidente del Consiglio, è tanto difficile.
Ormai è chiaro, al di là delle rassicurazioni verbali partorite da ogni riunione, che l’Europa rischia di saltare non su Maastricht ma su Schengen, non sull’euro ma sui migranti. Del resto il principio di libera circolazione delle persone fu pensato per permettere a ogni cittadino dell’Unione di studiare e lavorare negli altri Paesi come se fosse a casa; non per consentire agli immigrati africani di approdare – grazie a un traffico gestito da criminali – in un’isoletta in mezzo al Mediterraneo e proclamare «siamo in Europa e non potete più mandarci via». L’Europa ha il dovere di salvare le vite e accogliere i profughi, andando se necessario a prenderli nei loro Paesi, e ha il diritto di respingere i flussi che valuta di non poter integrare. Finora, però, la questione è stata trattata come un affare interno ai vari Paesi; e il gruppo di Visegrad intende continuare così. Altro che asse con Roma.
Il governo italiano fa bene a rintuzzare gli attacchi irrispettosi delle libere scelte degli elettori, e a far notare a Macron l’atteggiamento francese sulla frontiera tra Ventimiglia e Mentone, rigido al limite della crudeltà. Ma, anziché inasprire il rapporto con un alleato storico da cui non potrebbe comunque prescindere, considerato quanto sono intrecciate le due economie, il governo dovrebbe guardarsi dai falsi amici. E sbaglierebbe a ritirarsi sdegnosamente dalla scena europea. La politica della sedia vuota storicamente non ha mai pagato; soprattutto se la sedia vuota è quella di un Paese come l’Italia, che non è una grande potenza ma può avere un ruolo cruciale proprio in virtù delle sue capacità di mediazione. La Cancelliera non riscuote grandi simpatie; in questo momento resta però il miglior interlocutore che si possa avere in Germania. I suoi successori potrebbero farla rimpiangere.
E comunque dall’Italia si guarda con ammirazione alla Svizzera, non solo perché gioca i Mondiali da cui gli azzurri sono esclusi. La Svizzera ha schierato in Russia un’interessante squadra multietnica, segno dell’apertura del Paese al mondo; anche se colpisce che Shaqiri giochi con lo stemma del Kosovo su una scarpina, mentre Xhaka e Shaqiri hanno mimato dopo il gol l’aquila a due teste, simbolo della Grande Albania. Gli svizzeri di origine kosovara vogliono che il loro Paese d’origine sia indipendente, o che faccia parte di un altro Stato più grande? Forse, più che rivendicazioni politiche, si tratta di un richiamo identitario. Si può amare la patria d’adozione, e giocare per lei, senza dimenticare la propria terra d’origine. Magari gli italiani sapessero integrare profughi e immigrati. Invece le apparizioni in Nazionale di Balotelli – che litiga spesso con Salvini – continuano a provocare polemiche.