L’irruzione del virus nella vita quotidiana ha scompaginato i principî fondamentali della convivenza. La libertà. La sicurezza. La tutela dei più deboli. La tenuta del sistema sanitario. La nuova pestilenza ha occupato ogni angolo dell’organizzazione sociale, condizionandone il funzionamento. Le spicole che sporgono dalla corona portano con sé un evidente potenziale totalitario, ossia la capacità di infiltrarsi in ogni aspetto del vivere civile, dalla politica all’economia, dall’informazione alla cultura. Già alcune «democrazie illiberali» (ossimoro in voga in alcuni paesi ex comunisti) ne hanno approfittato per rafforzare ed allargare le competenze del potere esecutivo: un’occasione provvidenziale per mettere la mordacchia ai partiti d’opposizione.
Ogni emergenza tende a ridurre l’ingerenza dei parlamenti e ad accentrare le politiche d’intervento nella gestione della crisi (formazione degli «stati maggiori di condotta»). Anche la Svizzera conobbe durante i due conflitti mondiali il regime dei pieni poteri, ossia la concentrazione delle decisioni nelle mani del Consiglio federale. Un’operazione considerata inevitabile data la situazione, che però rimase in vigore anche a guerra finita. Per ripristinare le regole democratiche furono necessari interventi energici da parte della cittadinanza più attiva; nel secondo dopoguerra fu addirittura necessario lanciare un’iniziativa popolare – detta del «Ritorno alla democrazia diretta» – per ricondurre il Consiglio federale nell’alveo della tradizione: un verdetto, quello del 1949, non sorretto da una maggioranza schiacciante, come si sarebbe potuto attendere da un popolo geloso delle sue prerogative, ma da appena il 50,7% dei votanti. Di qui un primo insegnamento: cedere quote di potere è facile, riconquistarle a emergenza finita è difficile. Questo succede perché ogni potere è abitato dal demone dell’onnipotenza, una tentazione alla quale non sa resistere.
Secondo insegnamento: l’uso strumentale della pandemia per conseguire fini inconfessabili o segretamente coltivati. La grande guerra del 14-18 accelerò la costituzione della «Fremdenpolizei», incaricata di sorvegliare l’ingresso, la presenza e le attività degli immigrati sul territorio della Confederazione. Con gli anni, la Polizia degli stranieri estese via via il suo raggio d’azione fino a diventare un «potere parallelo», in buona parte occulto e dotato di ampie discrezionalità. Recentemente lo storico Josef Lang ha ricordato quanto fosse lunga la mano della Fremdenpolizei e quanta influenza esercitasse sia in campo normativo, sia nelle quotidiane attività di sorveglianza. Suo compito precipuo fu quello di impedire che il «contagio» del bolscevismo ammorbasse l’organismo sociale all’indomani dello sciopero generale del novembre 1918. Occorreva fare in modo che il pericolo rosso, di cui erano portatori i sovversivi provenienti dall’Est, venisse bloccato alla frontiera: guai se tali «corpi estranei» fossero penetrati nella società elvetica, debilitandola al punto di minare la sua capacità di opporsi a Lenin e compagni. La Fremdenpolizei giudicava particolarmente perfide le mene sotterranee degli «Ostjuden», gli ebrei orientali che con il loro nomadismo spargevano il «germe» della rivoluzione mondiale nell’Occidente capitalistico, come avevano avvertito gli anonimi autori dei Protocolli dei savi Anziani di Sion (un falso antisemita confezionato dalla polizia zarista nel 1905).
Convogliare angosce e rabbie popolari verso un determinato gruppo sociale era prassi abituale, e d’altronde la storia offre copiosi esempi. Episodi simili si verificarono anche in Ticino, a margine dell’epidemia di colera che investì il cantone nella prima metà dell’Ottocento. La propagazione del «mortifero vomito orientale» – studiata da Raffaello Ceschi in un saggio pubblicato sull’Archivio Storico Ticinese nel 1980 – fu addossata alla turba dei girovaghi, dei mendicanti e degli accattoni: «una simile razza di gente sono già il cholera in anima ed in corpo». Per arrestare il contagio il governo decise di istituire posti di blocco ai valichi di confine, con il compito di respingere tutti gli sbandati intenzionati ad entrare.
Germi, bacilli, infezioni, contagi… Sappiamo qual è stato lo sbocco di questa terminologia biopolitica nell’Europa tra le due guerre. È bene sempre ricordarsi di questa rovinosa caduta della civiltà occidentale quando all’orizzonte vediamo profilarsi pulsioni liberticide e scorciatoie autoritarie. L’unico «anticorpo» efficace in questi casi non può che essere una sana e vigile cultura democratica.