L’invito a partecipare a una giornata di studio organizzata per celebrare il cinquantesimo della prima legge cantonale sulla pianificazione del territorio – respinta in votazione popolare – mi costringe ad occuparmi degli anni Sessanta dello scorso secolo e del ruolo che le élites politiche, in quel decennio, svolsero per modernizzare il Ticino. Non sempre con successo, come insegna il caso della legge appena ricordata.
Quello della legge cantonale sulla pianificazione del territorio è, da noi, forse l’esempio più conosciuto del conflitto che, in materia di innovazioni nella legislazione o di riforme, spesso oppone le élites politiche alla volontà popolare. Lo dimostrano i risultati di molte altre votazioni popolari succedutesi nel tempo fino ad oggi. Apparentemente le occasioni più frequenti di conflitto concernono misure di politica economica e sociale, dove il sovrano manifesta spesso una volontà diversa da quella espressa dai suoi rappresentanti in parlamento e in governo.
Non sorprende quindi che, tra gli economisti svizzeri, la democrazia diretta sia diventata un tema di discussione. Né sorprende, dato che si tratta di economisti, che all’interno di questa compagine siano nati due gruppi che difendono due tesi opposte. Il primo gruppo, capeggiato dai professori Bruno S. Frey e Reiner Eichenberger parteggia per l’estensione massima possibile dei diritti popolari basandosi su una concezione ortodossa del liberalismo economico stando alla quale le decisioni per essere ottime, nel senso della massimizzazione del benessere collettivo, devono riflettere le preferenze individuali e quindi essere prese dai singoli individui residenti in una determinata regione, o in una determinata nazione (stranieri compresi, ovviamente).
Per capire di come si potrebbe procedere pensate al caso di certi comuni del canton Berna nei quali il moltiplicatore d’imposta non è fissato a livello comunale, ma a livello delle singole fattorie dagli abitanti delle stesse.
Il secondo gruppo, capeggiato dal professor Silvio Borner sosteneva invece la tesi secondo la quale anche per la democrazia diretta dovrebbe esistere un «ottimo» economico che, nel caso della Svizzera, era oramai superato. Vale la pena di sottolineare che anche questo gruppo di economisti argomentava nel solco del liberalismo economico. Ma il loro argomento centrale era che la democrazia diretta, ossia la possibilità che ha l’elettorato svizzero di far valere la propria opinione con iniziative e referendum, doveva essere arginata perché non permetteva al paese di introdurre la necessaria liberalizzazione dei mercati che, sola, avrebbe potuto riportare la sua economia sul cammino della crescita. Potendosi esprimere attraverso le votazioni popolari, interessi di parte, di gruppi economici e classi sociali come pure di regioni e cantoni, avrebbero sempre impedito, stando agli esponenti di questo gruppo, le riforme auspicate.
Ora il dibattito riceve nuova linfa da un libro, pubblicato dalla «Neue Zürcher Zeitung», che Hans Rentsch ha scritto per rispondere alla domanda «Wie viel Markt verträgt die Schweiz?» ossia «Quanto mercato può sopportare la Svizzera?» Contrariamente a quanto i lettori potrebbero pensare questo titolo non anticipa un’analisi critica del mercato e di come agiscono le sue forze. Il libro di Rentsch è infatti un’arringa perché si faccia posto a più mercato in tutta una serie di domini della politica nazionale come, (e ci limitiamo a pochi esempi) il mercato del lavoro, le scuole, l’energia, la salute, il clima, l’agricoltura, i media, le pensioni e così via dicendo. Rentsch non è per niente contento di come il mercato venga trascurato dai nostri politici. Le sue ricette per migliorare la situazione sono due: educare l’elettorato a capire meglio i problemi economici e far maggior posto agli economisti nella politica. Basteranno?