Le primarie della sinistra francese si sono rivelate un mezzo disastro. La politica sembra impazzita in tutta Europa, anche in un Paese «strutturato» come la Francia. L’umiliazione del presidente Hollande, del primo ministro Valls, della Gauche di governo è totale. A questo punto può davvero succedere di tutto.
Le primarie della destra dovevano essere una sfida tra Sarkozy e Juppé; ha prevalso a sorpresa il terzo incomodo, François Fillon, dopo un’ascesa rapidissima che i sondaggi (in Francia di solito accurati) avevano colto solo in parte. Pareva che per Fillon fosse quasi fatta. Ma poi spunta uno scandalo che in altri tempi sarebbe quasi passato inosservato, meno grave di quello degli stipendi di partito pagati con il denaro pubblico del Comune di Parigi, che a suo tempo non affossò affatto Chirac: Fillon in sostanza stipendiava la moglie come assistente parlamentare. Però, al tempo della grande rivolta contro l’establishment e le élites, una semplice attitudine mediocre diventa una vergogna pubblica; e la candidatura di Fillon ne esce indebolita. Inoltre il suo progetto rigorista di tagli allo Stato sociale e ai funzionari pubblici è piaciuto a destra, ma rischia di ritorcersi contro di lui quando si tratterà di rivolgersi all’elettorato nel suo complesso.
Al partito socialista non è andata meglio. L’ex primo ministro Manuel Valls ha indotto il presidente François Hollande a non ripresentarsi (unico caso nella storia della Quinta Repubblica; ci sarebbe il precedente di Pompidou, che però era morto). Ma ha poi clamorosamente fallito la prova delle primarie, battuto da un suo ex ministro, Benoit Hamon, figura di secondo piano destinata – a meno di altre clamorose sorprese – a restare tale: secondo i sondaggi non soltanto Hamon non arriverà al ballottaggio delle presidenziali, ma al primo turno potrebbe essere solo quinto, dietro Marine Le Pen, Fillon, il centrista Emmanuel Macron e l’estremista di sinistra Jean-Luc Mélenchon.
Anche Hamon strizza l’occhio alla Gauche radicale. Ha criticato aspramente Valls e Hollande, indicandoli come succubi del pensiero unico, dell’austerity, del liberismo (Valls ha tentato di mettere sotto controllo i conti pubblici, che tendono comunque al rosso acceso, e di liberalizzare il mercato del lavoro più rigido d’Europa). Ma questo arroccamento non fa il bene della sinistra. Il caso Corbyn insegna: l’anticapitalista duro e puro consegna il potere alla destra, o – dove sono in campo – ai populisti della prima ora: i Grillo, le Le Pen, i Salvini, i Trump (che non a caso tra loro si piacciono moltissimo e si scambiano di continuo segnali d’intesa, estesi volentieri a Putin).
È un rischio, quello dell’arroccamento, che corre pure la sinistra italiana. Dopo aver affossato l’ultimo leader riformista che restava al potere nei grandi Paesi europei, il povero Matteo Renzi, la minoranza Pd ora viaggia spensierata verso la scissione. Un regalo fatto ai populisti italiani. Altro che larghe intese Renzi-Berlusconi; se si va avanti così, alle prossime elezioni politiche avranno più seggi Grillo, Salvini e la Meloni, con un «simpatico» programma che si può sintetizzare nella formula «no neri no euro»: linea dura contro l’immigrazione, e referendum per uscire dalla moneta unica. Per carità, l’euro si può criticare, forse si deve; ma il rischio di un governo Cinque Stelle-Lega l’Italia non se lo può permettere. E questo rischio non è meno remoto di quello che corre la Francia con Marine Le Pen e la sua nipotina Marion.