Il respiro leggero del mondo

/ 15.10.2018
di Maria Bettetini

I bambini hanno paura ad addormentarsi, perché temono che, chiudendo gli occhi e abbandonandosi, il mondo sparisca, e col mondo la mamma. Poi però la stanchezza li prende, dormono, il respiro si fa lento e rilassato. È allora che esplode una poesia, quel soffio leggero che non si sente nemmeno, io devo avvicinare una mano alla loro schiena per rassicurarmi, sì, il piccolo respira, dorme, sta solo dormendo. Ho di nuovo provato questa emozione di recente, l’ultimo arrivato in famiglia è scatenato di giorno, e per fortuna dorme di notte, con quel respiro di chi si abbandona a un mondo sconosciuto, lui piccolo indifeso e morbido.

Quando i filosofi e gli alchimisti hanno pensato a concetti come l’anima del mondo, il respiro del mondo, io credo che l’abbiano potuto dire solo dopo aver visto un piccolo dormire. Il tranquillo innocente respirare del bambino è l’unica via possibile per immaginare un respiro della natura. Proprio credere a un’anima dell’universo ha giustificato magia e alchimia: se tutto è un unico corpo mosso da un’unica forza, sarà possibile agendo su una parte influenzarne un’altra.

L’idea, per quanto ne sappiamo, è per primo esplicitata da Plotino, l’egiziano migrato a Roma, amato dalle signore dell’Impero nel secondo secolo, apparentemente così schivo da ogni contatto corporeo da fuggire chi gli voleva fare un ritratto, da non lavarsi per mesi, in nome di un millantato odio per la sua corporeità. Però lo stesso Plotino, notando la tristezza, anzi la depressione del discepolo Porfirio, originario di Tiro, gli consigliò un soggiorno in Sicilia, dove il buon clima e il buon cibo lo avrebbero aiutato a superare ogni malinconia. E Plotino parlò appunto di anima del mondo: «l’Anima dell’Universo è simile all’anima di un grande albero che, senza fatica e in silenzio, governa la pianta», mentre invece per quanto riguarda l’anima umana «è come se in un pezzo putrefatto dell’albero nascessero dei vermi», anche se c’è una parte della nostra anima che «è affine alla parte superiore dell’anima universale, è simile a un agricoltore che, preoccupato dei vermi che sono nella pianta, rivolga alla pianta tutte le sue cure».

L’Enneade IV parla chiaro, il corpo del mondo è «perfetto, indefettibile e sufficiente a se stesso», nulla gli si oppone, pertanto ha bisogno solo di un «cenno di comando», questo è il compito della sua anima, «che governa le cose con autorità regale, in tranquilla sorveglianza». Come il respiro di un bambino, anche se non si deve dire che l’anima sia «soffio», pneuma, perché questo le darebbe una sorta di corporeità. È piuttosto una presenza che senza fatica governa il mondo. Le anime umane, invece, assomigliano al sonno degli adulti, spesso faticoso, agitato da incubi, quando non sono brutti sogni sono comunque sogni strani, in cui possiamo volare o addirittura vedere noi stessi morire, dove all’improvviso compaiono persone che non ci sono più, o che speravamo di non dover rivedere mai più.

Nei nostri sonni patiamo nostalgia, paura, passione e tanto straniamento. Perché le anime degli uomini, racconta sempre Plotino, sono state spinte nei corpi, rimanendo solo con un fragile legame con l’anima del mondo. Faticano quindi a governare l’elemento materiale, soffrono, vorrebbero fuggire, si sentono come gli adulti, prigionieri dei loro sogni. Io, devo dire, non condivido questa visione dualista, per quanto la trovi affascinante e sappia che a partire dai misteri orfici per arrivare fino a tanti esoterismi di oggi, per millenni milioni di persone hanno sperato di trovare una salvezza nella negazione del corpo. Platone su questo tema ha scritto miti di grande potenza, tra tutti quello di Eros, demone del desiderio, che porta l’essere umano a desiderare dopo un bel corpo la bellezza di tutti i corpi, poi la bellezza dell’intelligenza – quindi delle leggi e delle scienze – infine la bellezza soprasensibile, finché la mente si ritrova a contemplare il bello in sé, e questo è, per Platone, il momento della vita per cui vale la pena di averla vissuta.

Ma per me è difficile comprendere come possa essere bello il bello in sé, senza avere alcuna corporeità, nemmeno quella della luce, che sarebbe comunque oggetto della vista, quindi materiale. Così come non riuscirei a pensare a una persona senza ricordarne il corpo, il viso, le mani. Non diciamo ad amarla. Infatti noi umani agli angeli abbiamo appioppato ali, abiti svolazzanti, volti, a volte anche spade e scudi. E se pensiamo un aldilà, bello o brutto che sia, immaginiamo fuoco o musiche celesti, dolore o corse sulle nuvolette. D’altra parte, quando appoggio la mano sulla schiena del piccino, mi accorgo con sollievo che respira, e percepisco quindi il respiro leggero del mondo, sento qualcosa che si scioglie dentro, un tepore unito all’accelerazione del battito del cuore: anche la tenerezza non è solo spirito.