Il professore e la tibia

/ 09.09.2019
di Bruno Gambarotta

Torino città magica? Uno dei vertici del triangolo della magia nera, con Lione e Praga? Per vincere il mio scetticismo una cara amica mi gira pagine di giornale che raccontano una vicenda lontana nel tempo. È il 21 maggio 1946. «La Stampa», per poter riprendere le pubblicazioni, ha dovuto cambiare la testata, diventando «La Nuova Stampa». La seconda pagina è su nove colonne e le due di destra sono occupate dalle inserzioni pubblicitarie. Sulle rimanenti sette si trova di tutto: la cronaca locale, i cinema, il programma della radio, i necrologi, le cronache sportive.

Sotto la sezione «cronaca cittadina» notiamo due articoli che fanno al caso nostro. Il primo, su una colonna, titola Incontro con l’impiccato nel buio della cantina. Gli abitanti di una casa in via Digione, allarmati da un urlo proveniente dalla cantina, accorrono e trovano una donna semi svenuta a terra, ai piedi di una trave da cui pende il corpo di un impiccato. Lei stava inseguendo un pulcino che si era rifugiato nella cantina e lì, guardando a terra, era andata a sbattere contro il cadavere penzolante di un quarantenne che si era tolto la vita dopo avere appreso di essere affetto da un male incurabile.

Ma il servizio destinato ad attrarre l’attenzione del lettore si trova al centro della pagina ed è sviluppato su tre colonne. Titolo: Il morto è venuto a riprendere le sue ossa. Nel testo si narra la disavventura di un «noto professore, un emerito studioso che da tempo vive a Torino». Vive da solo con una vecchia fantesca, con lui da più di 30 anni. Ignoriamo quale materia insegni né se sia vedovo o rimasto signorino. Tutto ha inizio nel 1920, la Prima guerra mondiale è terminata da due anni. Il professore in vacanza si trova sull’altipiano di Asiago dove combattendo sono morti migliaia di soldati. Passeggiando sotto la pioggia in un camminamento scorge nel fango una tibia umana. Dal dizionario: «tibia, osso lungo della gamba che, insieme alla fibula, ne costituisce la struttura scheletrica».

Il professore raccoglie la tibia e, invece di depositarla al cimitero più vicino, la porta a casa, a Torino. Per custodirla fa costruire da un artigiano un supporto d’oro con piedistallo d’argento e colloca il trofeo sullo scrittoio, accanto alla lampada, per avere sotto gli occhi, sostiene, «un costante richiamo alla fragilità umana». Facciamo un salto di 26 anni e arriviamo a domenica 19 maggio 1946. È sera e il professore ha riunito nel suo studio alcuni colleghi per parlare dei problemi della scuola. Quel singolare trofeo non manca di suscitare la curiosità nei presenti e il professore è felice di spiegarne l’origine e il messaggio. Alle 23 i colleghi si congedano e il professore, abitudinario come sempre, lavora nello studio fino allo scoccare della mezzanotte, segnale per lui che è ora di mettersi a letto, mentre la fantesca già da tempo si è rifugiata nella sua cameretta in fondo al corridoio.

Il professore, senza un preciso motivo, è inquieto e stenta ad addormentarsi e quando finalmente ci riesce piomba in terribile incubo. Sogna di essere ancora nel suo studio, in piedi accanto alla finestra sta guardando fuori dai vetri quando il cigolio della porta che si apre lentamente lo costringe a voltarsi. Nel vano uno scheletro umano gli sbarra la strada. Vorrebbe gridare ma nessun suono esce dalla sua bocca. Ha modo di notare che alla gamba sinistra dello scheletro manca la tibia e le ossa sono tenute insieme da una larga benda. Lo scheletro entra, si avvicina alla scrivania, afferra il trofeo, ne estrae la tibia, se la sistema addosso sul suo corpo e scompare, abbandonando sulla scrivania la benda che teneva insieme le sue ossa. Il sogno termina, sono le sette del mattino.

Il professore si sveglia, è ansante, pallido, sudato. China su di lui, con aria preoccupata, la fantesca domanda: «Si sente bene professore? L’ho sentita gridare e ansimare nel sonno». «Non è niente, ho fatto solo un brutto sogno». Il professore si alza, indossa la vestaglia e va nello studio. E lì lancia un urlo. Dalla scrivania è scomparsa la tibia con il suo sostegno e al suo posto c’è un largo cerotto. Riavutosi, il professore va a denunciare il furto al commissariato di zona. La polizia inizia a indagare ma senza risultati, non ci sono segni di effrazione alla porta dell’appartamento e la vecchia fantesca è al di sopra di ogni sospetto.

La fine della storia l’apprendiamo dalla «Nuova Stampa» del 23 maggio. Titolo: Lo scheletro s’è tenuto la tibia e ha restituito il prezioso supporto. Verso le 12 e 30 del giorno prima la portinaia di via Carlo Alberto ha trovato sul tavolino accanto alla porta d’ingresso una piccola scatola di cartone recante nome e indirizzo del professore. Il quale, dopo averla aperta con comprensibile agitazione, ritrova il supporto della tiara e un biglietto: «Vi restituisco l’oro e l’argento che non interessano. La tibia è ritornata allo scheletro cui apparteneva e giace con le altre ossa, sotto terra, in un riposo eterno».