Il professore denunciato

/ 02.10.2017
di Maria Bettetini

Ancora una volta si grida allo scandalo, ancora una volta finirà in nulla. Un ricercatore di origine inglese (faccia l’italiano! gli suggeriva il capo) ha denunciato il suo professore di riferimento perché gli aveva consigliato, per il suo bene, di ritirarsi dal concorso interno che avrebbe potuto fargli valere l’abilitazione da professore di prima fascia, cioè ordinario. Tra parentesi: «ordinario» di solito si dice di ciò che non è un granché, banale, come l’ordinaria amministrazione o una località ordinaria, non emozionante, prevedibile.

Invece tra gli universitari è così detto il vertice della carriera, quella che una volta era detta «la cattedra»: se non sei «ordinario» ti sono precluse molte attività, come parlare a certi convegni o dirigere certe ricerche, e soprattutto non puoi essere nella commissione dei concorsi, l’unico vero luogo di potere per gli accademici. Infatti un tempo essere professore era socialmente un punto di arrivo: ai professori si facevano i regali, marmellate e maiali compresi; i professori raramente pagavano i colleghi, si trattasse di medici, avvocati o notai; i figli e la moglie del professore erano nobilitati, come quando in Germania si chiamava la consorte «signora professora», indipendentemente dalla sua attività. Ma torniamo al ricercatore che denuncia, e che ottiene, con tempi nemmeno esagerati, il carcere ai domiciliari – che sempre carcere è – per una decina di ordinari e l’iscrizione nel registro degli indagati per una cinquantina di colleghi e professori di tutta Italia. Di lui si parla come di un eroe, il ministro propone un riconoscimento, tutti lo intervistano, tutti lo vogliono. È vero, ci diciamo, ci vuole un bel coraggio a denunciare il tuo professore, che già ha minacciato di distruggerti la carriera.

Di solito la minaccia è seguita dai fatti e chiunque tra gli accademici saprebbe elencare casi non lontani di persone «uccise» perché insubordinate, quando addirittura non ci si trovi a raccontare di come sulla propria pelle si sia dovuta cambiare città, materia, e insieme docente di riferimento per fuggire vendette o ritorsioni di cui nessun giornale ha parlato. Però. Però però, non possiamo limitarci a condannare la «casta» dei professori e osannare il coraggio di chi denuncia. Ora dirò il perché, semplicemente elencando una serie di fatti che certo sono noti, ma spesso non vengono ricordati insieme agli scandali e alle denunce.

Innanzitutto parliamo della vacuità di tali denunce: non si sa, a memoria d’uomo, di professore davvero condannato o ricordato per questo. Anche un docente condannato per plagio, che per questo aveva pagato un salato risarcimento al plagiato, è riuscito a diventare una autorità morale, chiamato anche all’estero per smascherare i falsi e i truffatori, fustigatore dei costumi alla televisione, alla radio, sui giornali. Ma veniamo all’oggi. Perfino lo scandalo è vacuo: da sempre, in tutti i lavori, sia coltivare rose, sia avere uno scranno in Parlamento, la famigliarità ha un suo ruolo. Che lo si consideri una ovvietà o uno scandalo, perché rimaniamo sereni quando nei telegiornali i cognomi dei giornalisti sono per due terzi cognomi di altri giornalisti, più anziani? Padri e zii che hanno saputo trovare la strada per il ragazzino o la ragazzina senza passare dall’umiliante selezione delle scuole di giornalismo, con un’equità degna di miglior causa: figli di antiberlusconiani a Mediaset, figli di Mediaset in Rai. Ma c’è un’altra ragione di vacuità: il ricercatore, che fa il ricercatore a tempo pieno, non denuncia il «suo» professore che gli chiede di ritirarsi da un concorso già promesso ad altri, perché sa che il rischio è di perdere lo stipendio, oltre alla carriera.

Oggi i ricercatori sono a tempo determinato, quindi prima di diventare almeno di seconda fascia devono essere confermati cinque volte: al concorso per diventare ricercatore, alla fine dei primi tre anni, al concorso per l’abilitazione, al concorso per diventare ricercatore di tipo B (non spiego, abbiate pazienza) e poi al concorso per essere chiamato come abilitato. Il suo capo ha almeno cinque possibilità di lasciarlo a casa, e il ragazzo o la ragazza, magari nel frattempo hanno quarant’anni, a volte una famiglia, come perdere il contributo della Pubblica Amministrazione? Il giovanotto fiorentino che ha denunciato è, invece, un avvocato, ha uno studio legale fiorente, e anche un’età non proprio imberbe. Certo, gli avvocati, come i medici, possono guadagnare molto dall’avere la parola «prof.» prima del cognome. Ma chi ha già un buono studio e non ha più l’età per litigare con le giovani leve, che problema avrà a togliersi macigni dalle scarpe?

Ora, io ritengo che lavorare in università sia uno dei più bei mestieri del mondo: sei pagato per studiare e scrivere, vivi in mezzo a persone spesso di degna intelligenza, sei a contatto con ragazzi a cui non devi insegnare le buone maniere, che frequentano le lezioni se vogliono, che studiano se vogliono. Il prezzo da pagare è alto (sono pochi quelli che non pagano nulla), ma se davvero vuoi studiare e sapere e insegnare, sei disposto ad accettare tante cose. A patto poi di lottare per cambiarle, non per far pagare agli altri quello che tu hai pagato. O ritieni di, sono tante le sfumature.