«Siamo uomini o caporali», «Oddio, desto o son sogno?», «Ogni limite ha una pazienza» eccetera. Sono alcune (poche, troppo poche) delle frasi famose pronunciate da Sua Altezza Conte Palatino e Cavaliere del Sacro Romano Impero Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, in arte Totò (6). Un delirio di nomi. Classe 1898, pensate che Totò è morto, per un attacco cardiaco, a soli 69 anni, il 15 aprile 1967 nell’ora in cui era solito andare a dormire, le 3.30 del mattino. Totò è morto a Roma, in via dei Monti Parioli 4, pare che avesse da poco consegnato al cugino Eduardo Clemente, suo segretario, 120 mila lire per il funerale: «Dovrebbero bastare per tutto, anche per il trasporto a Napoli, perché a Napoli dovete portarmi subito». Voleva onoranze semplici, senza sfarzo. L’ultima scena l’aveva girata non molto tempo prima, per il film di Nanni Loy (5+) Il padre di famiglia, con Nino Manfredi. Ed era la scena di un funerale. Durante il soggiorno luganese, nei primi anni 60, aveva avuto il primo, lieve, infarto, quasi inavvertito, e da allora, superstizioso com’era, non venne mai abbandonato dal presentimento sulla fine imminente.
Il giorno dopo la morte, il «Corriere della Sera» raccontò la cronaca dell’ultima giornata di Totò. Nel pomeriggio si era seduto in poltrona per ascoltare il primo 45 giri da lui firmato: su una facciata era incisa una scena che culminava nella battuta «È morto Diocleziano? Ragazzi, come passa il tempo», e sull’altra la poesia A livella. Era tornato a letto e verso le 21.30 si era rimesso in poltrona davanti alla tv, ma colto da un dolore al petto aveva chiesto alla moglie, Franca Faldini, di essere accompagnato in camera. Il dottor Cusimano l’aveva assistito senza poter fare molto. Le ultime sue parole: «Portami subito a Napoli, subito». Lo vestirono con una giacca blu di taglio marinaro, con bottoni d’argento, cravatta nera, pantaloni grigi e calze rosse, tra le mani un medaglione con l’immagine di sant’Antonio che teneva sempre sul comodino.
A pagina 5 del «Corriere», Indro Montanelli firmò un elzeviro (5+) intitolato semplicemente Quel viso: «Credo che Totò sia morto un po’ anche per l’angoscia di morire. Era ossessionato da questo pensiero». Da quando aveva saputo di avere un cuore fragile, diceva ai suoi registi: «Sono disposto a darvi tutto, ma solo da qui in su» e si toccava la gola. In effetti gli bastava il viso: un viso che avrebbe potuto essere dipinto dal Picasso cubista, con la mascella «deragliata» da quando, ragazzo, aveva preso un calcio in faccia giocando al pallone. Era un trovatello del quartiere sottoproletario Sanità di Napoli, dove aveva vissuto un’infanzia povera convinto di essere il discendente di una famiglia nobile: e forse lo era davvero. «Miseria e nobiltà» è il binomio che fotografa al meglio la sua vita, il suo carattere e la sua arte. La fame (di pane e di donne e di rivincita sociale) sarebbe diventata il filo conduttore dei suoi personaggi comici e snodabili, delle sue marionette, dei pinocchi e dei pulcinella che incarnava. Ai Parioli, ricordava Montanelli, Totò aveva vissuto da nobile decaduto, facendosi chiamare Altezza dall’autista e dal cameriere, in una casa spaziosa, piena di stemmi e di cimeli ma senza troppa ostentazione.
Per avere un ritratto ravvicinato, si può leggere lo scrittore e sceneggiatore Ennio Flaiano (5½), che rievocò il suo primo incontro con Totò: era il 1952 e si trovavano in piazza Augusto, a Roma, per girare la prima scena di un film di Roberto Rossellini, Dov’è la libertà: «Totò era un “signore”, perlomeno del signore meridionale aveva la calma, la tolleranza, la cortesia. Salutava togliendosi il cappello, non faceva mai circolo attorno a sé, non raccontava storielle, né cadeva preda di quelle concitate allegrie o depressioni che, nel lavoro del cinema, sono il prodotto delle lunghe e inspiegabili attese. Dagli uomini della troupe veniva chiamato principe».
Flaiano lo vedeva sorridere quasi sempre, ma quando gli consegnava il foglietto con le battute da studiare lì per lì la sua espressione cambiava: «egli lo leggeva assumendo un’aria serissima, ma ad ogni parola, con una sorpresa sempre nuova, il suo volto cominciava a scomporsi in una reazione continua, apparentemente comica, e di una intensità infantile. Un re da favola, che avesse letto il discorso preparatogli dal ciambellano, non avrebbe espresso in altra forma la sua contenuta meraviglia. Un minuto dopo era pronto a dire nel migliore dei modi le povere cose da noi scritte». Il segreto di quella calma? La sua «disposizione surreale di fronte alla vita…». Totò, scrive Flaiano, «non esisteva in natura, non era vero», non era una maschera da commedia dell’arte e neanche un eroe squallido e miserabile da commedia all’italiana. Era Totò, una zona metafisica, l’imponderabile, il grottesco, l’inverosimile. Né uomo né caporale, né sogno né desto, né limite né pazienza…