Ho perso la zia di mia moglie e siccome lei sa che non la posso soffrire, pensa che io l’abbia fatto apposta. Invece la colpa è dei regolamenti dell’ospedale dove l’avevo accompagnata per una visita di controllo, prenotata da otto mesi. L’ho persa quando mi sono messo in fila davanti al totem giallo che emette il ticket dopo aver introdotto le banconote. Avevo con me tutti i dati di zia Anita per essere pronto a rispondere alle domande che appaiono sullo schermo. Se non si risponde con prontezza il totem comunica «Tempo scaduto!» e bisogna ricominciare tutto da capo. La macchina ha chiesto il segno zodiacale della zia e io, sapendo che è nata il 22 maggio, ho risposto pronto «Gemelli!», ma poi quando ha preteso di sapere l’ascendente non ho saputo rispondere. Sono tornato di corsa nell’atrio dove avevo parcheggiato la zia per domandarglielo ma lei non c’era più. Al suo posto c’era un tale che scavava il pavimento con un martello pneumatico per posizionare la fibra ottica. «Stiamo lavorando per voi!» mi ha risposto quando gli ho domandato dov’era finita l’anziana signora che prima sostava in quel punto.
Mi sono messo a girare in tutti i reparti finché non ho ritrovato zia Anita. Era in ortopedia e le stavano ingessando un braccio. «Ma come?» le ho domandato, «non gli hai spiegato che sei qui per una visita di controllo?». «Ho protestato e mi hanno risposto: se dessimo retta a tutto quello che dicono i pazienti staremmo freschi». Alla fine, pagando un altro ticket, ho ottenuto che le togliessero il gesso e ci siamo messi in attesa del nostro turno davanti al reparto giusto. L’istruzione era chiara: «Aspettate che la chiamiamo noi». E noi lì, in mezzo al caos, con le orecchie dritte, nel timore di non sentire il nome della zia. È pieno di squali che, se non rispondi subito, sono pronti a giurare all’infermiera che ti hanno visto andare via e così fare un passetto avanti nella fila.
Dopo un bel po’ di tempo, ho incominciato a notare che chiamavano dei pazienti arrivati dopo di noi. Ho chiesto come mai e mi hanno spiegato che loro avevano la precedenza perché erano affetti da malattie rare: i medici sono golosi di quel tipo di malattie perché possono studiarle, scrivere dei saggi, pubblicarli, andare ai congressi e fare carriera. Così, per fare prima, mi sono inventato una malattia rara. Quando l’infermiera è uscita dall’ambulatorio e ha chiamato un tale arrivato dopo di noi, ho fatto la vocetta gentile e ho domandato: «Scusi, perché non avete ancora chiamato questa signora?». Lei ha risposto, con un tono brusco: «Quando sarà il suo turno la chiameremo». «Strano», le ho detto, «perché il professore, quando ha sentito il nome della sua malattia, ha detto che l’avrebbe visitata subito». L’infermiera ha abboccato: «Quale sarebbe la diagnosi della signora?». Ho sospirato con mestizia: «La signora è affetta dalla sindrome di Wilamowitz-Moellendorff». Sono andato sul sicuro, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff è stato un filologo classico e non c’era il rischio che esistesse una malattia con quel nome. L’infermiera ha detto: «Aspetti un momento che m’informo».
Tempo tre minuti e sono sbucati fuori cinque camici bianchi. Quello che sembrava il capo ha domandato: «Dov’è la paziente affetta dal morbo di Wilamowitz-Moellendorff?». «È lei», ho risposto indicando zia Anita, «ma non è un morbo, è una sindrome». Mi hanno aggredito: «Cosa ne sa lei? È forse un medico?» Hanno afferrato la zia, l’hanno portata al di là della porta a vetri e me l’hanno chiusa in faccia. È stata quella l’ultima volta che l’ho vista. Ma non mi sono arreso, sono andato a informarmi in amministrazione; sono stati molto gentili, mi hanno sommerso di spiegazioni: «Ci dispiace, abbiamo interrogato il nostro data base e la risposta è stata che quella malattia non esiste». «Certo che non esiste», ho replicato, «l’ho inventata io». «Ecco, vede che abbiamo ragione noi? È impossibile che la signora sia stata ricoverata nel nostro ospedale perché non avremmo mai potuto registrarla come affetta dal morbo di Wilamowitz-Moellendorff». «Non è un morbo», ho precisato, «è una sindrome». Si sono arrabbiati: «Cosa ne sa lei? È forse un medico?». Ho chinato la testa e chiesto umilmente cosa potevo fare per riavere zia Anita anche se la sua presenza non era registrata nella memoria del loro computer. «Deve avere pazienza», mi hanno spiegato, «bisogna aspettare che facciano tutte le analisi necessarie per definire la sintomatologia di questo nuovo morbo. Quando saremo in possesso del quadro clinico completo, potremo introdurre i dati di sua zia nel nostro computer e lui, se saremo stati esaurienti, la registrerà. Solo a questo punto sarà disposto ad accettare la presenza nel nostro ospedale della signora e a autorizzarne la dimissione».
Devo affrontare un ultimo ostacolo, il più difficile: convincere mia moglie. Spiegarle che, secondo il mio spassionato parere, sua zia sta meglio in un ospedale che a casa sua. È guardata da un esercito di medici, le fanno tutte le analisi possibili e immaginabili. Senza contare che il suo nome sarà eternato sui trattati di medicina come quello del primo essere umano trovato affetto dalla sindrome, pardon, dal morbo di Wilamowitz-Moellendorff.