Il prezzo della gratuità

/ 25.02.2019
di Ovidio Biffi

Lei compie 30 anni, lui 15. Non è una storia di sentimenti. Il lei è riferito alla rete, cioè al web o Internet. Il lui invece riguarda uno dei suoi servizi più illustri, più social si dice oggi: Facebook, che comprende anche Whatsapp e Instagram, più piccoli ma delfini promettenti. Il compleanno quasi in contemporanea, più che per segnalare le ultime novità in campo informatico (ad esempio il G5 che massimizza la velocità sul web, o gli ultimi scandali prodottisi sui social toccando, in punti sensibilissimi, persino l’uomo più ricco del mondo, ricattato come un pivello di terza media), mi intriga per la diversa gratuità che i due soggetti ostentano. Un amico campione di malignità, nel senso che i suoi giudizi vanno dall’ironico al sarcastico, liquida la faccenda con poche parole: la gratuità del web è roba del secolo scorso, quella di Facebook è invece prettamente da millennials. E me lo spiega con il semplice cambio di consonante di due vocaboli inglesi: il «prize» è diventato «price», vale a dire ciò che un tempo era un premio, seguendo il corso di un progresso permeato dal consumismo ha finito per avere un prezzo. È la strada seguita anche da Facebook e dai suoi consimili, partoriti dalla gratuità a 360 gradi del web come strumenti per la comunicazione e la socializzazione, ma poi subito modificati per ricavare profitti da quanto riuscivano a incamerare.

Vediamo di aggiungere qualche dettaglio in più. Che il web sia gratuito lo sanno tutti. Anzi: Internet difende la sua gratuità a ogni costo (è un po’ un ossimoro) da 30 anni, cioè dal giorno in cui Tim Berners-Lee – il suo inventore, insignito quattro anni fa del premio Gottlieb Duttweiler di Migros – lo creò come strumento di comunicazione fra gli scienziati che operavano al Cern di Ginevra. In pochi anni, senza che a Berners-Lee giungesse un centesimo di guadagno, si è trasformato in una delle più straordinarie invenzioni mai previste o immaginate da qualcuno nel secolo scorso (alla pari del computer e del laser). La gratuità di Internet ha consentito a miliardi di persone di connettersi, di vedersi e di dialogare, è diventata strumento formidabile per consolidare intese e per abbattere barriere e pregiudizi. Questo fintanto che i «gatekeepers» (cioè i guardiani dei cancelli del web, come Facebook, Google ecc.) non hanno iniziato a sfruttare raccolta e manipolazione di dati personali, successivamente estese (con pericolose vendite) ad agenzie di intelligence private e governative, minacciando così non più solo la privacy, ma anche la democrazia. Anche Berners-Lee un anno fa, stigmatizzando i pericoli che possono derivare dalla gestione delle informazioni, aveva ammesso che il web era ormai una potenziale arma di controllo e di ricatto.

Anche Facebook era e continua ad essere un’applicazione gratuita, esattamente come i suoi sempre più numerosi consimili: dal planetario Google ai servizi analoghi asiatici o russi (Qzone, Weibo ecc.). In apparenza questi servizi chiedono solo l’account, ma è proprio il semplice legame di fidelizzazione (non a caso difficile da cancellare) a consentire la mutazione del tipo di gratuità degli strumenti social. E di riflesso è proprio questo avvio «virginale» a nascondere il pericolo che la loro gratuità ambigua possa trasformarsi in minaccia per il futuro non solo tecnologico, ma anche politico. Nel caso di Facebook, ad esempio, la gratuità ambigua ha permesso al suo fondatore di arrivare a gestire un impero miliardario, sempre più difficile da controllare e da frenare. Le cifre dell’ultimo quadrimestre parlano di ricavi saliti del 30% a 16,91 miliardi di dollari, con l’utile netto in crescita del 61% a 6,88 miliardi di dollari; e le cronache precisano che il 93% del totale del fatturato deriva dalla pubblicità sui dispositivi «mobile». Ora, se le vette finanziarie e il potere economico raggiunti da questi «gatekeepers» sono impressionanti, il peso politico (esteso praticamente a tutti i continenti) di questi social è ancora maggiore visto che di fatto gestiscono un vero e proprio monopolio di controllo del web che a fatica governi cercano di monitorare.

Sono circondati da sospetti, implicati in scandali sui furti o sull’uso dei dati di milioni di loro affiliati, sono già finiti davanti a commissioni congressuali negli Stati Uniti e in Europa, ma i guardiani dei cancelli del web, facilmente in grado di pagare multe miliardarie, non intendono rinunciare a quanto produce la loro ambigua gratuità, nonostante il fenomeno stia avvelenando il mondo politico a tutte le latitudini. Senza contare, come avverte Berners-Lee, le manovre di queste società per creare barriere contro gli avversari (ultime avvisaglie: la «querelle» fra Google, Facebook e Apple) in modo da accentrare tutte le forme di innovazione, assorbendo le startup innovative migliori e le menti più brillanti.