L’economia sarà pure, come si dice, una «scienza triste»; sta di fatto che orienta e regola la vita di ognuno, un po’ come la medicina. Nel bene e nel male determina la quotidianità di tutti noi, invitandoci a tener d’occhio il bilancio familiare con l’attenzione che si riserva al quadro clinico: quante entrate, quante uscite, cifre nere e cifre rosse. Se a fine mese i conti non tornano, sono guai.
È per questo che scorriamo le diagnosi allestite dagli economisti con estrema cura, quali fossero i sacerdoti del nostro tempo, gli aruspici di un mondo uscito dai cardini e che non si riesce più a riassettare come si vorrebbe. Cresce insomma la domanda, anzi, un’ansia di conoscenza. Si vorrebbe decifrare e capire prima di intraprendere una qualsiasi forma d’investimento non basata sull’azzardo.
L’accademia negli ultimi decenni ha cercato di rispondere alla crescente domanda istituendo sempre nuove facoltà di scienze economiche. Per non allontanarsi troppo: ce n’è una a Lugano, una a Varese (Insubria), una a Lucerna (la più recente). La prima pietra, a livello cantonale, fu posata nel lontano 1895, con la fondazione della Scuola cantonale di Commercio; una primogenitura che nel corso dei decenni le ha permesso di acquisire un prestigio indiscusso. Non è quindi casuale che in quelle aule sia maturata l’idea di creare un Festival dell’economia, un’occasione di dibattito e di approfondimento che lo scorso 11 novembre è giunta alla terza edizione.
Non una rassegna facile, va precisato; nulla che ricordi i raduni mondani che tanto allietano le piazze e riempiono i locali, ma una serie di conferenze su temi spinosi, come le trasformazioni economiche (2015) e le ripercussioni della frontiera (2016). Quest’anno i relatori hanno affrontato un argomento che sta alimentando un flusso copioso di studi e di saggi: la distribuzione del reddito, ossia la questione della disuguaglianza nelle economie progredite.
L’«égalité» è uno dei princìpi proclamati dalla rivoluzione francese, accanto alla libertà e alla fraternità, oggi declinata come solidarietà. È un concetto, com’è facile intuire, multiforme e che nei secoli ha nutrito utopie che si sono rivelate disastrose per le stesse sorti di chi aspirava al riscatto. Ma proprio perché articolata nelle sue premesse e nelle sue ripercussioni, l’uguaglianza rimane al centro delle politiche sociali, e come tale figura nei programmi di tutti i partiti dell’arco costituzionale, dai liberali ai socialisti passando per la dottrina sociale della Chiesa. Di qui un largo ventaglio di interpretazioni, che ciascuna forza traduce poi in programmi d’azione differenziati: come uguaglianza delle opportunità, ovvero dei punti di partenza (liberali), come potenziamento del sostegno alle famiglie (cattolici), come tassazione dei grandi patrimoni (sinistra).
In questo campo, il ruolo dello Stato, nel secondo dopoguerra, è stato fondamentale, anche nel nostro cantone, come Mauro Baranzini ha dimostrato in una serie di studi pubblicati alla fine degli anni 70 per conto della Banca del Gottardo. L’intervento pubblico ha indubbiamente favorito una ridistribuzione dei redditi e della ricchezza, allargando la fascia del ceto medio e riducendo il più possibile il bacino in cui confluivano le persone bisognose di assistenza.
Con l’affermazione delle economie globali, la questione della disuguaglianza ha acquisito ancora nuove facce; di conseguenza anche gli economisti hanno dovuto perfezionare i loro strumenti d’indagine, rivedere ipotesi e categorie. Ma a volte nemmeno i più raffinati metodi quantitativi riescono a cogliere i mutamenti profondi in atto, non tutti misurabili come si vorrebbe.
Tra gli argomenti di studio poco battuti figura quello della ricchezza. In passato, le comunità degli studiosi e le associazioni attive nel sociale si sono occupate soprattutto della povertà vecchia e nuova, ma poco del rovescio della medaglia, sfuggente e raramente illuminato: quello dei grandi patrimoni, della loro influenza nella vita politica, nella costruzione dei valori sociali, dei loro canali informativi e ideologici.
Di questi aspetti, nel nostro paese, poco si discute. Un po’ perché sono considerati materia-tabù, schermati dal segreto bancario; un po’ perché l’etica protestante vieta un’eccessiva ostentazione dell’agiatezza. Negli ultimi anni solo il sociologo basilese Ueli Mäder ha osato bussare alla porta dei ricchi per vedere «come pensano e dirigono» («wie Reiche denken und lenken»). La sua tesi è che denaro e potere sono strettamente intrecciati e che la Svizzera è sempre meno politico-liberale e sempre più economico-liberale, uno Stato ove miliardari come Blocher possono dettare indirizzi e condizionare pesantemente le consultazioni popolari. Anche attraverso un esteso e capillare controllo dei media.