Una delle migliori definizioni di «populismo è quella che lo storico Marco Revelli ha voluto in copertina del suo saggio intitolato Populismo 2.0 e pubblicato di recente da Einaudi: «Il populismo si manifesta quando un popolo non si sente rappresentato. È “malattia infantile” della democrazia quando i tempi della politica non sono ancora maturi. È “malattia senile” della democrazia quando i tempi della democrazia sembrano essere finiti. Come ora, qui, non solo in Italia». Normale che il vocabolo risulti adatto come coperchio per una pentola in cui è possibile trovare «dalle suffragette inglesi dell’età vittoriana agli elettori machisti di Donald Trump nell’epoca del declino americano, dai costruttori di muri ungheresi al comando di Viktor Orbán ai ricercatori di nuove vie per l’Europa», come ricorda Revelli nel saggio citato.
E forse è proprio questo «mishmash» a mantenere sempre un po’ confuse origini, cause e sintomi, consentendo al populismo di attecchire non solo a destra ma anche a sinistra, tanto che c’è già chi sostiene che «solo il populismo di sinistra potrà salvare la democrazia»... Rivendicazione non del tutto campata in aria, visto che il populismo si manifestò dapprima in Russia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo come una sorta di socialismo rurale, per poi iniziare a mutare pelle diventando una sorta di araba fenice della politica.
Comunque a distanza di tanti anni qualche continuità la conserva: mentre agli albori si contrapponeva al burocratismo zarista, oggi il populismo, oltre alla burocrazia, ha come nemico i partiti e i governi che accentrando il potere dimenticano le periferie e la gente; parimenti, così come cento anni fa combatteva l’industrialismo occidentale, oggi, pur tenendo sempre sotto tiro il capitalismo, vuole porre fine anche alla globalizzazione, considerata dai populisti la madre di tutti gli accentramenti.
Cercando di capire meglio cause ed effetti di questo fenomeno il quotidiano «Il Foglio» di recente è arrivato a sostenere che il populismo del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo sia stato originato da una serie di articoli, pubblicati da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sul «Corriere della Sera» e poi diventati un libro: La casta. A distanza di dieci anni ad alimentare la trasversalità del M5s di Grillo ci pensano «la “casta bianca” degli scandali della malasanità e la “casta rossa” delle malefatte della sinistra, la casta delle regioni e quella delle province, la “casta della monnezza” e la “casta del vino”. La “santa casta” della Chiesa e la laica casta dei radical chic». Quest’ultimo accostamento (Chiesa – radical chic) riconduce a un altro testo che esamina in modo ancor più rigoroso quella che può essere considerata la fonte primaria dei populismi. L’ha individuata una decina di anni fa il filosofo tedesco Peter Sloterdijk (già ospite al simposio del Monte Verità) tracciando la storia politica della rabbia, emozione che da secoli cattura le collere di cittadini che, a torto o a ragione, si ritengono socialmente e politicamente discriminati o esclusi.
Il suo saggio Ira e tempo, quando apparve, venne essenzialmente letto come una critica alla globalizzazione. In realtà il filosofo tedesco stava scrutando – dalla parte delle radici, cioè dall’humus che avrebbe consentito al fenomeno di prendere corpo e di alimentarsi – anche i primi passi del populismo moderno, lo stesso che a fatica si cerca di analizzare e catalogare sperando di capire almeno da cosa viene causato e da dove arrivi. Secondo Sloterdijk nel corso degli eventi l’accumulo di rabbia è sempre stato catalizzato (e in qualche modo elaborato) da quelle che lui definisce le grandi banche del rancore e del risentimento: in passato la Chiesa e nel secolo scorso il comunismo. Dato che negli ultimi tempi entrambi questi grandi catalizzatori hanno però dovuto scendere a patti con la modernità (la prima) e le regole di mercato (il secondo), le falangi della rabbia – dopo aver zigzagato fra no-global, primavere arabe e rivolte dei ghetti metropolitani – hanno indirizzato la protesta di chi si sente escluso socialmente e discriminato politicamente contro i privilegi delle varie caste burocratiche nelle società occidentali.
Il populismo è così diventato un fenomeno «in fieri» un po’ ovunque in un Occidente dove tutti, dagli stessi populisti ai vetero-marxisti, sollecitano o promettono antidoti da utilizzare per salvare la democrazia. Ma sono appelli e proclami sempre più logori e anche un po’ illogici, visto che quasi sempre sono rivolti solo ad attenuare i sintomi della crisi, e quindi difficilmente aiuteranno chi è arrabbiato, chi si sente escluso e non più rappresentato. I veri malati, le cause da curare, sono i partiti storici e i parlamenti irretiti dal «laissez faire» e sempre più reticenti a tornare ad assumere l’onere delle decisioni di fronte agli elettori.