Stiamo diventando sempre più sedentari, a nostro rischio e pericolo. L’allarme, lanciato recentemente dagli ambienti dell’economia e della finanza, può sembrare, a prima vista, irrealistico, smentito dai fatti. Guardandosi attorno, si percepisce proprio l’opposto: l’immagine di un paese all’insegna della mobilità, dove i cittadini, fra weekend, ponti, vacanze, continuano a spostarsi, sia dentro che fuori le frontiere. E, addirittura, figurano in testa alle classifiche mondiali come i più forti consumatori di viaggi. Gli svizzeri, insomma, convivono ragionevolmente fra mobilità e sedentarietà, secondo le situazioni e i loro rispettivi valori. Un conto è il tempo libero da dedicare al bisogno di cambiamento, all’imprevisto, alla novità anche culturale. Un conto è la quotidianità, destinata al lavoro, alla sicurezza, alla continuità, all’abitudine, cioè alla normalità. Ed è qui, in questo terreno casalingo, che nasce e si sviluppa, allargando sempre più le sue radici, la nostra sedentarietà. Circolo vizioso o virtuoso? Il dibattito è in corso.
Sta di fatto che i timori di economisti e imprenditori, questa volta, si giustificano. Un dato statistico è rivelatore: negli ultimi vent’anni, è scesa dal 6 al 5 per cento, la quota dei nostri concittadini, oltretutto giovani, disposti a cambiare domicilio per affrontare un’attività professionale, più promettente, ma altrove, sia pure su suolo svizzero. Ne deriva uno svantaggio che non incide soltanto su un destino individuale, limitandone ambizioni e sbocchi futuri, ma si ripercuote sull’efficienza di interi settori produttivi, che stentano a trovare nuovi collaboratori. Svizzeri, spesso colti e altamente qualificati, ma bloccati dall’inscindibile legame con il loro luogo. Ci si trova alle prese con motivazioni che non sorprendono nemmeno più e non rappresentano neppure una prerogativa elvetica. Secondo il «Global Entrepreneurship Monitor», la tendenza si registra nei paesi più sviluppati, USA compresi.
In Svizzera, la sedentarietà esprime, innanzi tutto, un attaccamento, in fondo logico. Perché spostarmi? Io qui sto bene, godo le comodità di un ambiente ben noto : la famiglia, gli amici, i compagni di scuola, il bar dell’angolo, la squadra di calcio, il club del tennis, e via dicendo. Attraverso queste dichiarazioni di affetto, stima, fedeltà nei confronti della città, del villaggio, della valle , cioè del proprio luogo di origine e di vita, si configura una particolare forma di patriottismo: oggi persino contagioso. Ed è quello che si riferisce alle piccole patrie, o patrie locali, o localismo, o campanilismo o, addirittura, «patriottismo d’anticamera», per dirla con un termine ottocentesco. Si sprecano, insomma, le definizioni, e non tutte esaltanti, per un sentimento che fa tendenza, in un mondo che stenta ad accettare la globalizzazione.
Nel nostro Paese, per sua natura frammentato, se il Cantone ha assunto, dal profilo costituzionale, i connotati di piccola patria, a suo modo autonoma, la Confederazione è stata in grado di gestire le diversità, proponendo un equilibrio giustamente invidiato dagli osservatori stranieri. Esposto, negli ultimi tempi, alla rinascita del cosiddetto «Kantönligeist», sinonimo di ripiegamento e isolazionismo, come rilevava il giornalista inglese Diccon Bewes, in Swiss Watching, guida divertente, ma non irriverente, per scoprire la sfaccettata realtà elvetica, con gli occhi bene aperti su aspetti inquietanti. Fra cui, evidentemente, l’attrazione strisciante delle piccole patrie che, secondo l’economista americano Tyler Cowen, «conducono alla segregazione, a una forma di tribalismo».
Sono parole grosse che sembrano definire minacce lontane dalla nostra realtà. Ma fino a un certo punto. Anche la definizione di piccola patria, in apparenza amabile, che sa di genuino, si presta a interpretazioni insidiose. Piccolo non vuole sempre dire bello. Significa anche meschinità, autocompiacimento, stizzoso rifiuto di ogni diversità, considerata a priori pericolosa. Intanto, chiusi nel nostro orticello, fiorisce la litigiosità.