Sulle colonne del quotidiano «LaRegione» è nato un dibattito interessante, tuttora in corso, sull’identità e il futuro del Partito liberale-radicale all’indomani delle annunciate dimissioni di Rocco Cattaneo. Interessante, e aggiungiamo opportuno, giacché sappiamo che il presidente uscente non ha mai gradito le disquisizioni ideologiche. Alle dispute sui princìpi preferiva la concretezza del fare, in perfetta aderenza alla sua forma mentis d’imprenditore dai modi spicci, a tratti bruschi. Non a caso, nel suo discorso di congedo, Cattaneo ha posto l’accento sulla «lentezza» della politica al cospetto di un mondo sempre più veloce, compulsivo e assetato di risposte immediate. Dal suo punto di vista ha espresso un’impazienza legittima, un’insofferenza che è tipica dell’odierno universo dell’economia e della finanza, incalzato dai mercati, dalla rete e dalla centrifuga informativa (dalle televisioni a Facebook, Twitter, Instagram).
Ma, appunto, dal suo punto di vista. Che non è quello da cui muove la politica, un’attività fatta di mediazioni, trattative a volte estenuanti, confronto dialettico, compromessi, delusioni, sgambetti e battute d’arresto. Quindi forzatamente lenta nel suo incedere. Il che può ingenerare fastidio e stizza. Ma queste sono le regole di un gioco cui partecipano vari attori in disaccordo tra loro, in buona parte espressione delle forze sociali operanti nel paese. Se la politica fosse solo «tecnica», tutto filerebbe liscio. Sulla tolda della nave avremmo una compagine di «tecnocrati» di sola nomina, svincolati dalla volontà popolare: niente più dispendiose elezioni, ma una serena delega ai nuovi sacerdoti del sapere (per Platone, i mali della polis sarebbero cessati soltanto con l’avvento dei filosofi al potere).
Di fronte a questi scenari, nei partiti emerge spesso un sentimento di frustrazione: l’impressione di essere sempre in ritardo, sempre un passo indietro, alle prese con pastoie e vizi inveterati. Ci si affida allora ad un leader, o ad un ristretto gruppo dirigente, che promette decisioni rapide con piglio manageriale. È il modello del partito-azienda, in cui tutto scende dall’alto, mentre agli iscritti non resta che assentire, come un’assemblea di azionisti ridotta a platea plaudente. La ben nota «crisi dei partiti» si spiega anche così, con lo iato che si è creato all’interno tra la base e il vertice. Risultato: meno partecipazione, meno dibattito e potere crescente del gruppo dirigente.
Nel caso specifico c’è poi la questione della «doppia anima» che il Partito porta nello stesso nome, «imprinting» ereditato dall’Ottocento: liberale e radicale. Una formazione bicipite, divisa in moderati e intransigenti, in «grande corrente» ed «estrema»: governativi e movimentisti, liberisti e liberali, fautori del libero mercato e sostenitori dell’intervento statale, discepoli di Keynes e seguaci di Hayek. D’altra parte, la «doppia anima» è una caratteristica che alligna in tutte le principali famiglie partitiche, sia in quella democristiana (conservatori/cristiano-sociali), sia in quella socialista (riformisti/massimalisti, con gradazioni pressoché infinite).
Fino a non molto tempo fa, le questioni non componibili sfociavano in plateali rotture, e quindi in scissioni. Ora questa via di fuga si è fatta molto più difficile, per almeno quattro ragioni. Prima ragione: i partiti non hanno più il seguito che avevano negli anni d’oro, in cui dominava il voto d’appartenenza. Seconda: il raffreddamento delle passioni e il calo dell’interesse per la cultura storico-politica. Terza: l’interruzione del dialogo con gli intellettuali d’area. Quarta ragione: la sostanziale irrilevanza che ogni separazione sconta in un’epoca di sostanziale disincanto, soprattutto tra i giovani: un divorzio perseguito solo da un’élite (com’è ora l’ala radicale nel nostro cantone) non ha più prospettive. La sinistra, in questo campo, è maestra.
Rimane la strada interna. Ardua, tortuosa, accidentata. Ma è l’unica percorribile in un’era post-ideologica e politicamente frigida come quella attuale.
Un partito senza dialettica interna è solo un’accolita riverente. O, se vogliamo, un comitato elettorale da mobilitare a comando. Ma una formazione siffatta non può andare lontano, e nemmeno dotarsi di un programma solido, frutto del confronto fra le varie «anime» presenti. Se il sistema dei partiti vuole riguadagnare quota e credito deve avere il coraggio di promuovere la discussione interna, e non di soffocarla. Deve insomma ridiventare luogo di riflessione e palestra di idee, evitando di farsi trascinare nel gorgo del circo mediatico, tanto invadente quanto evanescente.