All’inizio della pandemia la RSI ha trasmesso in prima serata il film The Post in cui il regista Steven Spielberg racconta la storia dei «Pentagon Papers», ovvero la fuga di notizie relative a un rapporto, ovviamente segreto perché creato dal dipartimento della difesa degli Stati Uniti, noto anche come «Dossier McNamara». Pubblicarli o no? Il «New York Times», che aveva fatto lo scoop vero, era stato diffidato dal continuare. Ecco allora che arriva il «Washington Post» a proseguire la battaglia per la libertà di stampa, sostituendosi in pratica al più autorevole «NY Times», e a gettare le basi per la successiva battaglia: la denuncia di un altro scandalo (il Watergate) che avrebbe spinto il presidente Richard Nixon alle dimissioni.
Terminato il film mia moglie mi chiede se mi sono «ritrovato» in certi momenti professionali da tempo relegati ai ricordi. La mia risposta, nonostante qualche sussulto nel vedere linotype e tipografi al lavoro, devia la sua inchiesta: situazioni così drammatiche e importanti, soprattutto per quel che riguarda la libertà di stampa, appartengono ad altri mondi, anche se, qualche momento di tensione l’ha vissuto anche il giornalismo ticinese. Penso a certi cambiamenti di direttori, oppure a campagne o polemiche che finivano per causare veementi attriti fra giornali rivali coinvolgendo anche le forze politiche, o ancora a vicende riguardanti diffusione e continuità nell’editoria. Comunque nel film, oltre alla bravura degli interpreti, in particolare di Tom Hanks (il Ben Bradley direttore) e di Meryl Streep (straordinaria come Key Graham, proprietaria del «Post», obbligata a quotarlo in borsa per evitare il fallimento), c’erano almeno due particolari che mi hanno colpito. Innanzitutto una frase, nel finale: «I giornali non devono servire i governanti, ma i governati». Anche se sono passati oltre cinquant’anni dallo scandalo raccontato nel film, poi ampliato nelle sue conclusioni da quello del «Watergate» che piegò definitivamente Nixon, il tema della libertà di stampa continua a riaffiorare e ad avere una grandissima attualità. Anzi: a mio parere, con il passare del tempo, sembra affinarsi nelle sue derive pericolose e nelle sue importanti incidenze, seguendo (o subendo) oltre che le crisi editoriali, anche l’inarrestabile progresso / sviluppo che stanno conoscendo i nuovi media e soprattutto l’uso globalizzato dei social. In apparenza il cambiamento tocca solo le nuove generazioni, forse perché noi delle progenie precedenti preferiamo avere in mano la carta e continuiamo a temere il «verba volant». Eppure la necessità di salvaguardare nell’informazione oltre all’etica professionale, anche scelte deontologiche e senso del dovere di chi lavora in giornali, media elettronici e social viene proposta quasi quotidianamente.
Certo: la situazione non è più quella di qualche anno fa, quando solo i giornali, quasi obbligati (altre fonti erano «di parte») a seguire agenzia e media del parastato, avevano il compito di diffondere e rendere fruibili notizie ufficiali. Oggi la sfida coinvolge tutto il flusso informativo e chiede un’inequivocabile (per questo forse sempre rinviata) svolta: dovendo controllare le fonti, individuare falsità o disinformazioni che possono inserirsi facilmente e con sofisticate strategie nell’informazione. E non occorrono molte spiegazioni per chiarire che la necessità di base rimane quella ancorata a libertà e verità e che anche i «social» – che ormai hanno fagocitato le edizioni online dei giornali e colonizzato i media elettronici – sono protagonisti.
L’altro elemento suggeritomi dal film era più che altro una deduzione e riguardava la necessità, anzi: l’impellente urgenza di preservare e potenziare un servizio pubblico dell’informazione. Credo che tutti noi abbiamo avuto conferma, in maniera spesso drammatica, seguendo lo spietato zigzagare del virus Covid-19 e gli effetti spesso macroscopici del flusso di informazione dei media italiani incapaci di liberarsi dalla spettacolarizzazione. In questo scenario, spesso cacofonico e deviante, il concetto di «servizio pubblico» anche se quasi mai proposto in discussioni e commenti ha finito per riacquistare un senso, riproponendosi come elemento indispensabile per consentire all’autorità di fronteggiare in modo efficace e corretto con l’informazione indispensabile un pericolo inatteso e alla popolazione di decifrare e seguire una contingenza con necessità diverse. Quando questa emergenza sarà definitivamente sconfitta, fra le priorità della ripartenza, se autorità e popolazione vorranno essere sicuri di poter affrontare con armi efficaci le sfide future, dovrà figurare anche una calibratura dell’informazione. In particolare occorrerà fare in modo che la legge federale sui media elettronici in gestazione arrivi a garantire autorevolezza all’informazione e rigore a tutti i servizi erogati dalle imprese parastatali, estendendosi anche ai media online e ai fornitori privati. Ma prima ancora urge riscrivere e potenziare l’aiuto a un’editoria strangolata dalla mancanza di pubblicità. Quel «I giornali non devono servire i governanti, ma i governati» mantiene ancora tutta la sua valenza.