«Volete vedere come si vestono “i brutti”? Venite che vi porto». La signora ci fa strada in un intrico di vicoli, tra vecchie case da paese di montagna. Scalette, androni, giocattoli di bambini, biciclette. Entriamo in un porta che dà su un piccolissimo soggiorno, con due finestre e una stufa a legna. L’odore è quello delle abitazioni di tanti anni fa, quando tra le pareti rimaneva imprigionato un sentore acre di fuliggine di robinia e di salice. A noi sembra un po’ di disturbare, di infrangere una specie di segreto, ma non è così. Un gruppo di ragazze e ragazzi ci guarda con sorpresa, ma ci saluta con cortesia: hanno attorno a loro, per terra, i numerosi stracci colorati che danno forma al travestimento da «brutti». Nel carnevale di Schignano, in Val d’Intelvi, si fronteggiano da decenni due squadre di figuranti. Pare rappresentino i conflitti sociali tra le fasce ricche e povere della popolazione. Anzi, tra emigranti tornati al paese dopo aver fatto fortuna e altri che invece sono rimasti nella miseria. I «brutti», naturalmente, sono questi ultimi. Hanno abiti miseri e male assortiti. In realtà sono costruiti con grande attenzione, cucendo stracci tra loro e ben imbottiti per ottenere una foggia sgraziata e caricaturale, con gobbe e pancioni. Per terra, in questa stanza, stanno infatti manciate di foglie secche, paglia e altro materiale utile.
L’elemento fondamentale, comunque, è la maschera. La maschera del carnevale di Schignano è l’emblema di questa festa. Sono caricature dai grandi occhi e dai nasi prominenti, scolpite nel legno con grande abilità da artigiani locali. Sono cimeli di famiglia che si passano di generazione in generazione. Anche i «belli» portano le maschere. Il loro abbigliamento deve rispecchiare però la condizione di ricchezza che li caratterizza. Hanno vestiti ampi, fiorati, ricoperti di pizzi e decorati con veri monili d’oro. Hanno ombrelli dai colori sgargianti. Il senso del carnevale di Schignano sta tutto in una sorta di guerra tra «belli» e «brutti», che sfilando per le vie del paesino si affrontano e si minacciano a gesti, brandendo i loro ombrelli, senza parlare, ma dando il massimo risalto all’espressione truce e ridicola delle rispettive maschere. Entrambi, «belli» e «brutti», hanno legati alla cintola dei campanacci da mucca e li scuotono continuamente, trasformando questa battaglia tra i vicoli in un chiasso assordante. Oltre a questo, i «brutti» se la prendono anche con il pubblico che assiste alle battaglie. Hanno barattoli pieni di cenere e pennelli: di quando in quando assalgono le ragazze presenti e dipingono sul loro viso o sulle scarpe delle righe di sporco. Mentre si vestono, i ragazzi del gruppo che ci ha accolto raccontano che coltivano la passione del carnevale fin da piccoli, e fin da piccoli decidono «da che parte stare». In questa squadra di «brutti» ci sono ragazze e ragazzi: una volta infilata la maschera però le identità spariscono. Unite dal comune ruolo nella recita carnevalesca, le figure sono asessuate: possono portare insieme gonne e pantaloni, cappelli e fazzoletti in testa. L’importante è dare forma a una moltitudine grottesca e a una recita tradizionale che sembra antichissima (ma pare non lo sia). Antico è il paese che la ospita, e somiglia così tanto a quelli delle nostre valli, nella sua storia di povertà e di emigrazione. A colpirci comunque (mentre usciamo un po’ alla chetichella, lasciando che «i brutti» finiscano i loro travestimento) è la differenza tra questo carnevale e quelli giganteschi e «globalizzati» a cui siamo abituati. Da una parte c’è l’odore di festa antica, il mistero di una tradizione vissuta e sentita in una piccola comunità. Dall’altra, il frastuono quasi un po’ obbligato, i nuovi miti e le nuove tradizioni che avanzano.