Il fascino dell'avventura

/ 12.08.2019
di Aldo Cazzullo

Fin da bambino, grazie a libri tipo i romanzi d’avventura che ora non si leggono più (i ragazzi sono tutti su Instagram), sono cresciuto con il mito dei viaggi esotici (anche per sfuggire alle estati dai nonni a Loano, in Liguria). Ho iniziato presto, zaino tenda e «Avventure nel Mondo».

Le tracce di Salgari mi hanno portato soprattutto in Asia. Ricordo quasi con commozione un remoto viaggio in Indonesia in cui mi imbattei in un combattimento di galli, come quelli raccontati da Alex Haley in Radici (ambientato nel Sud degli Stati Uniti). Ma forse in questo momento il continente più istruttivo sul futuro dell’umanità, e pure sulla natura umana, è il continente nero.

L’Africa ogni volta mi suggerisce questo: la famosa storiella della gazzella e del leone che al risveglio partono al galoppo non è soltanto ansiogena («non importa se tu sia il leone o la gazzella, l’importante è che cominci a correre»); è stata inventata da uno che in Africa non c’è mai stato. Gazzelle, leoni e altri animali non corrono quasi mai, se non quando è strettamente necessario. La prima preoccupazione degli animali è risparmiare energia. Il cibo è soltanto la terza. La seconda è l’amore. La vera lotta per la sopravvivenza non è la caccia, sempre più sporadica in una savana in cui i leoni sono diminuiti del 50 per cento in vent’anni (ne restano 25 mila in tutta l’Africa). La vera «struggle for life» è per la riproduzione.

Ho visto tre leoni azzannarsi a sangue per stabilire chi dovesse accoppiarsi con la leonessa, che attendeva su un albero. A volte il leone giovane che arriva nel gruppo uccide i piccoli del leone vecchio, per costringere le femmine ad accoppiarsi con lui e mettere al mondo altri cuccioli. Va detto però che l’atto amoroso non può essere definito bestiale: il leone corteggia la leonessa, le lecca il collo, la mordicchia, accenna anche a una coccola finale. Ma pure gli erbivori sono battaglieri. I maschi delle giraffe si riconoscono dalle corna spelacchiate, per le battaglie combattute ovviamente a colpi di collo. I millenni hanno reso gli struzzi – ma anche i pavoni e i fagiani – sempre più belli, proprio per attrarre le femmine. 

Anche noi uomini ci siamo evoluti (forse meno di quel che crediamo). Ma a volte ho l’impressione che le donne sottovalutino quanto sia dura e a volte crudele la battaglia che talora noi maschi ingaggiamo per loro.

Ovviamente, però, la cosa più importante per cui si viaggia non sono gli animali. Non sono neppure i paesaggi, o i monumenti. È la gente.

Gli africani sono un popolo giovane e gentile. Il contrario di noi europei, sempre più vecchi e incattiviti.

La prima cosa in assoluto che mi colpisce, quando viaggio in Africa, sono i bambini. Ce ne sono moltissimi. Scappano da tutte le parti. Sono liberi, indipendenti, autonomi. Li vedi piccolissimi già con la cartella in mano, e poco più grandi a pascolare gli animali. Penso a come doveva essere l’Europa della Ricostruzione, dopo la Seconda guerra mondiale: piena di bambini. E di fiducia nella vita e nel futuro. 

Il numero di cani, nel cosiddetto Terzo Mondo, è inversamente proporzionale. In giro se ne vedono pochissimi. Magri e mansueti. Non uno che abbai o ringhi a un passante. In Italia i bambini sono pochissimi. Ne facevano di più gli italiani del 1918, quando gli uomini morivano sul Piave e le donne in casa di febbre spagnola. In compenso i cani sono molti, belli pasciuti, spesso aggressivi («vuole giocare» ci tranquillizza ogni volta il padrone). 

Intendiamoci: l’amore per gli animali è un sentimento nobile. Chi li maltratta merita tutto il nostro disprezzo. Ho il timore però, che esprimo nelle forme più rispettose possibili, che in Occidente e in particolare in Italia si sia sviluppato un rapporto a volte poco sano con gli animali. Che non sono figli, e non andrebbero trattati da tali. Anche nel loro interesse.

Poi, com’è ovvio, ci sono tante cose che varrebbe la pena approfondire. Tante differenze che colpiscono.

Ad esempio in Africa la gente vive – molto più che in Occidente – seguendo il sole: ci si sveglia prima dell’alba, ai primi raggi di luce sono già tutti in movimento, e dopo il tramonto si va a casa a riposare. La movida non esiste o è roba per turisti. Tutto cambia per le feste, che da quelle parti hanno ancora un senso, o per le cerimonie religiose. È una vita più semplice, forse con meno aspettative, in cui i legami tra le persone sono più solidi; e il degrado dei rapporti umani che avvelena la nostra vita ancora non si vede.

Viene allora da chiedersi: perché se ne vanno? Perché milioni di africani sono disposti a rischiare la vita pur di lasciare la propria terra? In Africa, tranne luoghi isolati e per tempi limitati (segnati dalle guerre), non si muore più di fame. Nel 1961 gli africani erano trecento milioni, vent’anni dopo erano raddoppiati, oggi l’Africa ha più abitanti dell’India, e tra qualche anno saranno ancora di più. Non si sfugge tanto dalla fame, quanto dalla mancanza di prospettive, da una vita segnata. Si cerca la libertà, e in qualche forma l’avventura, il rischio, l’opportunità.