L’Europa finalmente si sta occupando seriamente dei migranti. La rotta del Mediterraneo va chiusa, e farlo è possibile. Qualche passo in avanti nella giusta direzione è stato fatto, grazie anche a Marco Minniti, che è un bravo ministro dell’Interno. Anche se la soluzione è ovviamente lontana.
Ho passato il mese di agosto in Africa, in sei Paesi diversi. Ho parlato con centinaia di persone. Non ne ho trovata una, una sola, che volesse venire in Italia. Ne ho trovate moltissime che volevano sfuggire al destino che sentono scritto per loro. Finora a un africano che volesse andarsene è arrivato questo messaggio: la porta dell’Europa e di una vita migliore è Lampedusa, sono le coste siciliane e pugliesi, via Libia. È evidente che occorre smontare questo meccanismo insostenibile, che per anni ha avuto quattro fasi: il viaggio nel deserto, la traversata del Mediterraneo, l’accoglienza in Italia, il passaggio nel Nord Europa. L’ultimo anello è saltato da tempo, con la sospensione di fatto di Schengen e la caccia all’uomo con i cani sul versante francese. Il terzo anello non può e non deve saltare, perché non possiamo lasciar morire la gente in mare o di fame in Italia. Si sta lavorando, con l’embrione di Stato libico e con i Paesi subsahariani, per smontare i primi due. I risultati, ovviamente da verificare e consolidare, dimostrano che il problema è complesso ma non irrisolvibile.
Posso dire intanto che sul futuro dell’Africa sono ottimista. Ci siamo fatti l’idea di un Continente miserrimo e disperato. Non è così, sta crescendo una generazione fiera, che andrebbe aiutata non con donazioni ai dittatori (che per fortuna invecchiano e tendono a sparire) ma con progetti concreti. Ad esempio eradicare la malaria, di cui gli africani non parlano quasi mai perché se ne vergognano o la considerano un accidente necessario, mentre è un grave freno allo sviluppo.
Nel frattempo in Italia è scoppiata la psicosi dell’occupazione abusiva da parte dei migranti. Le scene viste nel centro di Roma, con scontri e idranti, hanno fatto nascere una sorta di psicodramma collettivo.
Lo sgombero è uno degli interventi di polizia più complessi. Si tratta di riparare a un’ingiustizia e a un danno – inflitto a un privato o all’erario – senza creare ingiustizie e danni più gravi. Credo che il massimo della difficoltà sia appunto uno sgombero a pochi metri dalla stazione più importante della capitale italiana (scommettiamo che se fosse accaduto in un’altra città l’attenzione sarebbe stata inferiore?), avendo di fronte persone aggressive pronte a battersi, confuse tra persone inermi tra cui molti bambini. In un contesto così arduo, criminalizzare un dirigente di polizia per una frase sbagliata, una minaccia inaccettabile ma sfuggita in un momento concitato, mi pare eccessivo. Il punto è che uno sgombero diventa ancora più complesso se non si ha un posto dove portare gli sgomberati. Un conto è trasferire un gruppo di famiglie o di individui da una casa occupata illegalmente a una casa dove possono risiedere legalmente. Un altro è disperderli nei giardinetti del centro.
La difesa della proprietà privata e dell’interesse pubblico è sacrosanta. Ma l’allarmismo non aiuta. Così come, dall’altra parte, i raffronti con i fatti della Diaz durante il G-8 di Genova nel 2002 e altre esperienze amare del passato sono fuori luogo. Stabilire che prima di sgomberare donne e bambini si deve sapere dove portarli mi pare un principio di civiltà, oltre che un modo per aiutare i poliziotti di uno Stato democratico a fare il loro dovere e ripristinare la legalità senza violare diritti o ricorrere a violenze che la stragrande maggioranza di loro preferirebbe di gran lunga evitare.
A inasprire gli animi, torna la legge sullo ius soli, che concede la cittadinanza dopo un ciclo di studi. Un provvedimento giusto in astratto, ma che in questo contesto incandescente rischia di essere scambiato come un incentivo a partire per l’Italia.