Quando un’èra si arrende alla prossima e una Pax imperiale non si impone più, lo si nota. Anche agli antipodi del nostro mondo. Nello Sri Lanka, per esempio.
Dimenticata lì, quasi appoggiata alla costa orientale dell’India meridionale, l’isola a forma di perla è punto di approdo e di passaggio obbligato per le navi che da Oriente vanno ad Occidente e viceversa, da sempre. Nella sua capitale, Colombo, il porto viene attualmente ingrandito, un braccio di mare viene colmato di sabbia, sorge un’autostrada qua e una là (novità!), a Hambantota, un altro porto di importanza crescente sulla costa meridionale spingendosi verso est, è pianificata un’area industriale di 15mila ettari (700mila mq)...
Lo Stato, vinta la guerra contro le Tigri tamil, ha finalmente i capitali per ammodernare le infrastrutture pubbliche? No: sono arrivati i cinesi. Sono loro che pagano. E decidono. La società mista sino-srilankese che amministrerà il nuovo porto di Colombo appartiene per l’80 per cento allo Stato cinese. L’area industriale di Hambantota viene ceduta ai cinesi per 90 anni. Ma quando gli imperi si avvicendano, bisogna mostrarlo anche con i simboli: a Colombo c’è una spianata fronte oceano che porta il nome di Galle Face Lane. Sul lato meridionale gli inglesi vi avevano costruito un albergo coloniale, il Galle Face Hotel, poco lontano ci sono ancora oggi i luoghi nevralgici del potere, Banca centrale, Tribunale supremo, Parlamento, Residenza presidenziale. Poi venne il tempo degli americani, più discreti, ma comunque presenti (anche in funzione anti-indiana, allora vicina all’orbita sovietica), con un paio di alberghi a stelle e strisce su Galle Face Lane, poco distanti dal Galle Face Hotel, giusto un po’ più grandi. Oggi i cinesi stanno ultimando tre alti grattacieli, sempre su Galle Face Lane, a formare un unico albergo: Shangri La. La stessa catena, con sede a Hong Kong, progetta un altro mega-albergo Shangri La a Hambantota, dove è da poco stato inaugurato un moderno aeroporto, fin qui inutilizzato (ma forse i cinesi...). Chissà se gli americani riusciranno in cambio di tanta apertura verso i cinesi (molto indigesta anche all’India) a ottenere una base navale militare a Trincomalee, sulla costa orientale, un porto naturale per eccellenza che si affaccia sull’Oceano indiano fino alla Thailandia. Colmerebbero una lacuna decennale. Ma se non l’ottenessero, sarebbe una prova ulteriore dell’influenza della Cina su quest’isola.
Tuttavia, si notano poco, fisicamente, i cinesi. I tecnici e gli ingegneri che lavorano ai mastodontici progetti restano appartati, i numerosi turisti non cercano il contatto con la popolazione. È facile trovare tra la maggioranza singalese, dove serpeggia da decenni uno spirito sciovinista, chi dice di non amare i cinesi. Ma questo non riguarda solo i cinesi. Nel corso degli ultimi cent’anni diverse minoranze (tamil, cristiani, musulmani, parsi, malayali) hanno subìto sulla propria pelle la furia di un nazionalismo singalese che si è sentito a lungo frustrato. Attualmente, qualche mugugno e fastidio i singalesi (che sono di fede buddista) lo riservano ai musulmani; attecchiscono convinzioni secondo cui i musulmani rappresentano già quasi il 25 per cento della popolazione (in realtà non raggiungono il 10%, ma la percentuale è in lenta crescita) e l’Arabia saudita finanzia i centri religiosi, mentre è vero che qualche estremista islamico, anche dell’Isis, transita nell’isola.
Al ritorno, sorvolando gli Emirati arabi, dalla foschia dorata che copre mare e deserto svettano, appuntiti, i grattacieli di Abu Dhabi, Dubai, Sharja, come torri di una moderna «Mille e una notte». Il mare è costellato da nugoli di petroliere che si allungano fino al Kuwait e all’Iraq. A nord l’inospitale sud della Persia, a sud, oltre le montagne e il deserto, le guerre che dilaniano la Penisola arabica, dallo Yemen alla Siria. Impossibile ignorare l’enorme importanza per l’economia mondiale dei campi petroliferi e di gas di questa regione. Che gli americani difenderanno sempre con i denti, ma che appare così vulnerabile nel suo galleggiare nelle vastità del deserto. Di tutte le guerre che hanno sconvolto il Medio Oriente, nessuna è mai stata davvero risolta ed elaborata. Tutto cova sempre sotto macerie ancora fumanti. Qui la Cina è ancora assente, ma ora assieme agli americani sono tornati a farsi sentire i russi, mentre sauditi e qatarioti hanno mire che vanno oltre i confini nazionali, senza dimenticare gli iraniani.
In attesa che il nuovo presidente americano ridisegni la geopolitica statunitense – perché ha l’aria di volerlo davvero fare, a cominciare dai segnali distensivi rivolti alla Russia di Putin (vedi pag. 17) – ognuno muove le proprie pedine. Anche se non più con la missione di fare degli Stati Uniti il gendarme del mondo, Donald Trump avrà il suo daffare per riuscire ad affermare la potenza americana in Asia e Medio Oriente, tuttora vitale per Washington.