Gentile Silvia,
due mesi fa è morta Luna, la mia golden retriever di 14 anni, ammalata da tempo. Tanto che a un certo punto, d’accordo col veterinario che l’aveva seguita sin dalla nascita, avevamo deciso di por fine alle sue sofferenze. Ma non dimenticherò mai lo sguardo dolcissimo con cui si è accomiatata da me. Sembrava dirmi: «so che ti dispiace ma non ti rammaricare. È giusto così».
Sono uscita dall’ambulatorio rasserenata, quasi sollevata, ma appena a casa mi ha assalito una fitta lancinante, come una coltellata sferrata senza motivo, senza perché.
Poi, col passare dei giorni, quella sensazione si è sciolta in una sofferenza mesta, in un lutto doloroso che non mi consente di piangere perché le lacrime si fermano negli occhi velandomi lo sguardo. Ancora oggi, quando rincaso, mi aspetto di sentire che lei mi aspetta: i suoi abbai di benvenuto, la coda che dondola, il fiato che ansima per la gioia di ritrovarmi, mi mancheranno sempre. Potrei scrivere per lei un necrologio come quelli che si pronunciano in chiesa durante i funerali, ma… era soltanto un cane. E la cosa che mi fa più male è proprio questa: che i parenti, le colleghe, i conoscenti, considerino il mio un lutto di serie B. Lo dica lei, professoressa, che quando scompare chi amiamo, sia esso un familiare o un canarino, ci lascia sempre un vuoto incolmabile, un’attesa infinita, una disperazione indicibile! / Fausta
Hai ragione, Fausta, il dolore non è classificabile, è dolore e basta. Ognuno lo modula secondo uno spartito interiore che è solo suo, ma quando viene meno un essere amato, è una parte di noi che se ne va.
In un certo senso la cultura nasce proprio per alleviare una sofferenza che, se non trovasse immagini, suoni, parole e gesti per dirsi, ci precipiterebbe nel baratro della disperazione. Non a caso le più antiche produzioni simboliche sono le tombe, i primi tentativi di conservare la memoria del passato sono le lapidi. I residui di un’antica cultura contadina, costretta dal bisogno ad essere pratica e spiccia, inducono molti a sottovalutare il lutto per un animale domestico. Ma da quando ci siamo sottratti alla morsa della necessità, abbiamo capito che solo il nostro cuore può valutare quanto fosse importante per noi ciò che ci manca.
In questi casi, senza ascoltare chi vuole indurla a chiudere la questione al più presto perché «i problemi sono altri», si permetta di sostare nel lutto, di «leccarsi le ferite», come sanno fare i cani e i gatti.
Proprio in questi giorni ho appena finito di leggere un libro «da comodino», uno di quei libri che, letti e riletti, diventano parte di noi. Lo consiglio a chi sta contrastando l’invasione del dolore, cercando di incanalare il fluttuare della sofferenza senza nome. È stato scritto da Stefania Giannotti, una femminista della Libreria delle donne di Milano molto conosciuta e amata. Il libro, intitolato Troppo sale (Feltrinelli) alterna, come già il precedente, Zucchero a velo, Baldini & Castoldi/La Tartaruga 2003, ricette e memorie autobiografiche.
Vediamo l’autrice, nel risvolto di copertina mentre, accanto a libri e computer, sfoglia le cime di rapa. L’alternanza è chiara: leggere, scrivere e cucinare. La narrazione si apre con un lutto devastante, con un vuoto impossibile da colmare eppure evocato come presenza nell’assenza. Più si procede nella lettura, più emerge la forza che può derivare dal soffrire senza fretta di concludere, senza passare ad altro, dal darsi tempo.
Vita e morte non sono contrapposte ma procedono insieme: «L’evento è luttuoso, ma non è la morte che non dà tregua, è la vita». E Stefania, che impara a vivere vivendo, cerca di raccontarci come «È la potenza dell’esistere che mi meravigliò e mi si attaccò addosso... Sono le semplici scoperte e le prepotenze della vita che andrebbero raccontate, che vorrei raccontare». E Stefania ci riesce.
Anche grazie alla calma indotta da ricette di famiglia, che rinviano alla tradizione napoletana aggiornata. Ricette raccontate in prima persona, nel modo semplice e diretto con cui si trasmette, parlando tra donne, un saper fare intriso di sapienza e di saggezza. Ascoltando i suoi suggerimenti ritroviamo i gesti, gli odori, i sapori sprigionati dalle piccole cose, quelle che non tradiscono mai.
Infine, l’amore perduto diventa amore per il mondo, amore per tutti.
E il libro si conclude con parole che risuonano anche per lei, cara Fausta: «Voglio vivere ancora un po’ / È ancora il momento di piangere / Non è il momento per morire».