Macron ha concesso troppo e troppo poco. Troppo, perché aprendo i cordoni della borsa, aumentando il salario minimo a spese dello Stato, esentando i pensionati dalle nuove tasse, defiscalizzando le ore di lavoro straordinario, ha sforato le regole di Maastricht e indebolito la Commissione europea nella trattativa con gli altri Paesi, a cominciare da Italia e Spagna. Troppo poco, perché i Giubbotti gialli sono ormai ringalluzziti, e già sognano di fondare un partito.
Eppure credo che la protesta dei Gilets jaunes sia destinata a refluire. E non certo per le tardive mosse del presidente della Repubblica, che sembra aver finalmente capito che un Paese non si può riformare per editti reali, ma va percorso e ascoltato. Com’era prevedibile, un movimento senza organizzazione, senza capi riconosciuti e senza servizio d’ordine si prestava a essere infiltrato da estremisti e violenti. È quel che è accaduto. Il primo dicembre scorso, i manifestanti hanno attaccato la polizia e imbrattato l’Arco di Trionfo: quello che pareva il culmine della rivolta si rivelerà l’inizio della fine.
Per quanto indignati con il governo, i francesi – o almeno la gran parte di loro – considerano lo Stato una cosa seria. Un movimento che tocca le forze dell’ordine e i simboli dell’unità nazionale finisce inevitabilmente, prima o poi, per perdere il consenso della maggioranza. A questo si unisce una povertà culturale imbarazzante, che apparenta i Giubbotti gialli ai Cinque Stelle, come del resto Grillo si è affrettato a far notare. Il manifesto con le loro rivendicazioni è un florilegio di proposte contraddittorie e impossibili, tipo dimezzare l’aliquota fiscale massima e nello stesso tempo raddoppiare le assunzioni di funzionari pubblici, non senza uscire dall’euro e abbattere il debito dello Stato.
Questo non significa che Macron possa respirare di sollievo. Le elezioni europee saranno una punizione severa per un partito improvvisato e inesperto come il suo. L’ondata populista è arrivata anche in Francia, e prima o poi troverà una traduzione politica, anche senza giubbotti catarifrangenti.
Per capire i Gilets jaunes bisogna considerare la storia d’Oltralpe. La Francia non è un Paese che avanza per riforme, ma per strappi. La rivoluzione, o comunque la rivolta violenta contro il potere, fa parte del mito politico della nazione. Ricordo i cortei del gelido dicembre 1995, con la neve per le strade e temperature sotto lo zero (nei giorni scorsi invece a Parigi c’erano 13 gradi), contro le riforme del premier Alain Juppé, che intendeva limitare i privilegi degli statali. Funzionari dello Stato, garantiti e ben pagati, danzavano la Carmagnola come sanculotti insorti contro l’Antico Regime. E la Francia si riconobbe in quella ribellione, costringendo il governo a fare marcia indietro. Diciotto mesi dopo ci furono elezioni anticipate, vinte a sorpresa dall’opposizione socialista. Ma questa volta in piazza non c’è l’opposizione a Macron che sta tentando di cavalcare la tigre senza grande successo. È una rivolta contro la politica, che ha tratti oggettivamente reazionari. Parigi e tutta la Francia hanno vissuto giornate di grande tensione, con l’esercito a presidiare le piazze accanto ai poliziotti. Macron ha rinviato di un anno l’aumento delle accise sul gasolio, ma quella era solo la scintilla; nel rogo ardono tutti i malcontenti, compreso quello degli studenti liceali, che si sono rivelati capaci di una violenza impressionante. È il tempo della rete: sul web si sprecano le minacce di morte, anche contro i leader moderati dei Gilets jaunes; e le parole sono sempre pietre.
Stavolta, lo ripeto, la protesta è destinata a refluire; e forse Macron rimpiangerà di essersi mosso quando ormai poteva riprendere il controllo della situazione, finendo per dare un’impressione di debolezza. Ma è evidente che il sogno di una Francia immune dal populismo e dalla rivolta contro l’establishment è ormai sfumato.