È trascorso solo un mese dalla fine dei mondiali di calcio in Russia. E che cosa rimane nelle nostre menti, di comuni mortali, come ricordo di quell’orgia televisiva? Anche se vi sforzate: poco. E di quel poco molte vicende non riguardano nemmeno il gioco più diffuso del mondo. Personalmente mi porto dietro alcune immagini iconiche, come quella del presidente della Fifa Gianni Infantino (copia vivente dei Fridolin che salutavano un tempo chi entrava nei ristoranti svizzero-tedeschi) che dopo le reti complimenta o compatisce i capi di Stato presenti in tribune blindatissime. O come quella di un po’ più calcistica dell’arbitro che interrompe gioco e mima il ricorso allo schermo rettangolare del VAR, il Video Assistant Referee.
O, ancor più impegnata, di articoli, scene e discussioni collegate a identità e nazionalità. Mi soffermo su queste due vicende, prendendo slancio da un giudizio tecnico trovato su «Eurosport» online: «Che sia stato un mondiale tatticamente irrilevante si ha dall’incredibile incidenza dei calci piazzati. In Russia, sono stati segnati 71 gol su situazioni da fermo su 169 gol totali, ovvero il 42% del totale. Inserite in questo contesto anche il nuovo primato di autogol (12 contro i 6 del 1998) e avrete qualche dettaglio in più di una competizione nella quale a farla da padrona non sono state le grandi idee tattiche, ma le situazioni e, soprattutto, gli arbitri». Ecco: gli arbitri protagonisti, non tanto per aver fischiato 1732 falli e 605 calci d’angolo, ma per le situazioni in cui si è fatto ricorso al VAR, novità tecnologica di cui ha già detto tutto, e magnificamente, sull’«Azione» di fine luglio l’«altropologo» Cesare Poppi.
Sorta di «Grande Fratello sportivo», già attivo in altre discipline, la sua introduzione / imposizione anche nel calcio in fondo rispecchia quel che capita nella vita quotidiana, con milioni di persone obbligate /indotte ad accordare cieca fiducia alle nuove tecnologie a scapito di valori e certezze legate all’uomo. Non è certo per caso che durante tutto il mondiale si continuava a sentir dire che «l’ultimo giudizio spetta sempre all’arbitro». Si cercava di esorcizzare le concessioni alla tecnologia e, soprattutto, il condizionamento dei poteri di quello che in campo da sempre era l’uomo-giudice (Flaiano scripsit: «L’italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio»).
Ora il calcio ha una corte suprema, un tribunale elettronico che a distanza consente al team arbitrale (il numero di arbitri, tra campo e VAR, supera quello dei giocatori di una squadra...) una vivisezione digitale di quanto accade sul campo. VAR infallibile? Forse. Solo mi chiedo: che valore avrà il giudizio di un VAR, positivo per una squadra che reclamava un rigore, ma reso pubblico qualche secondo dopo che la squadra da punire col rigore VAR, su rilancio di un difensore (metti: come Mihailovic per il Lugano a Sion), avrà a sua volta segnato una fulminea e regolare rete?
La seconda vicenda è quella della doppia nazionalità. In una scoppiettante disamina dei mondiali, pubblicata su un blog de «il Post», Pietro Trellini ricorda che «complice una guerra, la fame, il caso o la volontà, non basta più la nascita a segnare indelebilmente la nostra appartenenza. E in una identità spesso incastrata tra il passato dei padri e il futuro dei figli viene difficile capire di chi si è». Con questo dilemma ha dovuto confrontarsi anche la squadra rossocrociata. Lo ha fatto non dopo le esternazioni dei rossocrociati Xhaka e Shaqiri contro la Serbia, ma solo dopo l’eliminazione e, tanto per rispecchiare il «cliché» svizzero, con finto stupore contrassegnato dalle non richieste piroette di qualche funzionario.
Era però inevitabile che in un mondo impegnato da decenni a frantumare o a rendere aleatori i confini e che negli ultimi tempi ha innestato una poco dignitosa retromarcia, venisse posta in discussione la nazionalità acquisita per accoglienza. È la globalizzazione, bellezza! Sorprende però che, dopo essere state cucinate dai media con la solita... delicatezza (cioè con facili riferimenti a «ismi» e diversità), le doppie nazionalità si siano palesate nella finalissima con un formidabile paradosso: la Francia, che annoverava 18 dei suoi giocatori diventati nazionali per accoglienza, ha incontrato (e superato) la Croazia, squadra composta invece da giocatori che, pur con passaporti di altri paesi, hanno preferito onorare l’etimo del termine «nazionale» (proviene dal sostantivo latino natio, derivato dal verbo nasci: «nascere»).
Comunque, allegri: i mondiali hanno conosciuto anche vicende che rispecchiavano il meglio della vita. La più ammirevole? Forse il cartello con la scritta «Grazie», in russo, lasciato negli spogliatoi puliti da cima a fondo dai giocatori del Giappone. Uno specchio di civiltà, imitato sugli spalti dai loro tifosi e da quelli del Senegal. Globalizzazione anche qui.