Il Café de Paris a Ginevra

/ 27.11.2017
di Oliver Scharpf

Il famoso beurre Café de Paris non viene da Parigi ma da Ginevra. È stato inventato nel 1930, al numero sei della rue Pierre Fatio, dal cuoco che teneva il Coq d’Or, il signor Boubier. La ricetta passa poi a suo genero, Arthur-François Dumont che nel 1942 apre un ristorante: il Café de Paris, rue du Mont-Blanc ventisei, vicinissimo alla stazione Cornavin. Dove si serve coraggiosamente solo un piatto: entrecôte con questo burro speciale alle erbe e spezie dal nome pseudoparigino, patatine fritte, insalata. Nel 1968 subentra la vallesana Aline Abriel che non cambia una virgola di questo locale monotematico ormai mitico, lasciandolo nel 1989 in mano al nipote, François Vouillamoz, il gestore attuale.

Ci sono stato un paio di volte, quando vivevo a Ginevra, e in realtà l’originale non ha niente a che vedere con il ricciolo di banale burro alle erbe imitato da altri ristoranti – disponibile pure in commercio, da porre a casa sulla carne – abbastanza di moda negli anni ottanta e oggi un po’ eclissato. È tutta un’altra storia. In treno pregusto quei divani in pelle, l’ambiente da brasserie francese anni trenta, ma soprattutto quel piatto ellittico di acciaio cromato dove l’entrecôte nuota nel verdognolo burro sopraffino. Dalla stazione è un attimo. Aperto sette giorni su sette con cucina non stop dalle 11 alle 23, arrivo verso le due. E così, a fine novembre entro per la terza volta al Café de Paris a Ginevra (382 m). «Cuisson?» mi chiede la cameriera. L’unica scelta rituale qui è la cottura. Al sangue, va da sé, almeno per me. E per Roland Barthes che a questa evidenza quasi «una morale» in La bistecca e le patate fritte – Miti d’oggi (1957) dedica ventinove righe. E così scrive una esse sulla tovaglia di carta.

Nell’attesa assaporo il décor: tre lampadari acrobatici, legno alle pareti, tavolini di legno con tovaglia rossa ricoperta appunto da tovaglia di carta che non leva eleganza ma è funzionale come vedrete, sedie di legno semplici molto belle. Non c’è gara però con il sedersi sulla pelle fiore, color bordò, che percorre tutto questo lato fino alle finestre. Alle spalle, delle esili sbarre parallele di ottone luccicante creano lo spazio per mettere giacche e borse; ricordano qualcosa dei treni di una volta. Sbrigata la pratica dell’insalatina, ecco l’entrata in scena. In contemporanea con il vecchietto dignitosamente da solo, un tavolino più in là. L’entrecôte zebrato a dovere è abbracciato da abbondante beurre Café de paris. Arrivano anche le frites. Pommes allumettes per la precisione. Tagliate fini come fiammiferi appunto.

Bisogna però avere ancora un po’ di pazienza Perché il segreto sta nel réchaud sotto che man mano scioglie il burro. L’oblungo entrecôte sembra intero ma è tagliato a pezzi generosi, in modo da prenderne uno alla volta con due cucchiai d’argento. E poi cospargerlo di burro a piacere. Solo un aggettivo kantiano: sublime. E un’onomatopea fumettistica-infantile: gnam gnam. La funzione della tovaglia di carta è chiara, appoggiando i cucchiai si macchia non poco. Il réchaud calibrato al punto giusto permette di gustarsi la carne sempre calda senza perdere il sanguineo. Il vecchietto ha una fame da lupo, già quasi spazzato tutto. Fa bene, eppure gli yoghi insegnano a gustarsi piano piano ogni boccone fino in fondo. E poi non capita tutti i giorni di essere come a Parigi ma a Ginevra; perciò me la prendo con comodo. Peccato solo per la ripetibilità di questa esperienza straniante ad Abu Dhabi, Dubai Mall, Madrid, Stoccolma, Sion, Isérables. Ma non facciamo i puristi, così va il mondo, il luogo originario è comunque qui. Là in faccia, sullo specchio, c’è scritto Chez Boubier 1930. In onore dell’inventore di questa liturgia.

I tavolini sono un po’ stretti, ma accentuano la condivisione fino a tramutarsi quasi in rito. «Le Monde», alcuni anni fa, pubblica uno scoop rivelando gli ingredienti della ricetta segreta. Ne mancano diversi invece, mi ha confessato un cuoco che ha lavorato qui, una sera tardi, al bancone della Sportive. Ed io li ho maniacalmente scritti su un foglietto di fortuna. Burro a temperatura ambiente, prezzemolo, dragoncello, timo, maggiorana, basilico, levistico detto anche sedano di monte, rosmarino, salvia, acciughe, senape di Dijon, rafano, curry madras, buccia di limone, succo di limone, salsa Worcestershire, cognac, sale, pepe bianco macinato al momento, panna 35%. Ma quello che più conta è che ora mi ricordo di quei due graziosi vecchietti seduti accanto, la seconda volta che sono venuto qui con una mia morosa. Ci raccontarono di essersi innamorati qui e che dal 1953, una volta al mese, risparmiando qualcosa, si concedevano una cena al Café de Paris. A ben guardare, di colpo, mi sembra che il vorace vecchietto sia seduto proprio dove sedeva quella sera, anni fa, con sua moglie. E mi viene un dubbio triste ma inevitabile. Ma no dai, sarebbe una coincidenza un po’ troppo borgesiana. Ad ogni modo ha tutta l’aria del vedovo. Ora è al dessert. Camminando verso il lago, a un certo punto, si scorge in lontananza il Monte Bianco che oggi è di una bellezza straziante.