Quando si celebra Jacinda Ardern, premier della Nuova Zelanda, per la gestione della crisi del Coronavirus, molti aggiungono: certo, con cinque milioni e rotti di cittadini è tutto più facile. Ma come hanno imparato dolorosamente gli amministratori locali di molti paesi, la pandemia si misura in termini relativi: tassi di trasmissione, progressione del contagio, proporzione di malati, morti, guariti. Cinque milioni di cittadini saranno certamente pochi rispetto alle popolazioni di Italia, Giappone o America, ma il punto è: fermare il contagio. E come fermarlo.
Il «come» della Ardern è stato: leadership. E trattare nel modo giusto quelli che gli inglesi chiamano i «big moments», i momenti di svolta. I due momenti importanti per la Nuova Zelanda ci sono stati a un paio di giorni di distanza l’uno dall’altro. Il 21 marzo scorso, quando il presidente americano Donald Trump ancora mandava messaggi confusi sulle strette di mano e l’impatto dell’influenza stagionale, la Ardern ha coniato uno slogan semplicissimo – da allenatore di squadra di rugby, dicevano i commentatori neozelandesi, che come si sa filtrano il mondo con l’immaginario degli All Blacks fisso in testa: «We go hard, we go early», colpiamo forte e colpiamo in anticipo. Quando ancora c’erano pochissimi casi in Nuova Zelanda, la Ardern ha annunciato in conferenza stampa la sua strategia di prevenzione del contagio di massa, quattro fasi dettagliate spiegate con calma e con un tono rassicurante.
Si è concentrata sulle conseguenze umane oltre che economiche della sua decisione, articolandole lungo tutto il percorso di allerta. Ha detto che le settimane successive sarebbero state difficili per tutti, invece che dire «non svaligiate i negozi che non ce n’è bisogno», ha detto che i supermercati, le farmacie, i distributori di benzina sarebbero rimasti aperti. Ha richiamato il senso che i neozelandesi hanno di loro stessi – «creativi, pratici, attenti al proprio Paese» – e ha concluso: «Siate forti, siate gentili, siate uniti contro il Coronavirus». Due giorni dopo, annunciando che nelle successive 48 ore si sarebbe passati al lockdown completo, la Ardern ha detto: «Oggi abbiamo solo 109 casi, ma anche l’Italia una volta ne aveva altrettanti».
E poi ha spiegato nuovamente i dettagli della fase in arrivo, insistendo sul fatto che la responsabilità personale era ed è responsabilità collettiva, l’ultima trasformazione di quel precisissimo «siate gentili» dei due giorni precedenti: «Faremo di tutto per proteggervi, voi fate di tutto per proteggere ognuno di noi». Un giornalista le aveva chiesto se aveva paura e lei, con la sua forza gentile, ha risposto: «No, perché abbiamo un piano». Il piano si è rivelato vincente: la curva del contagio neozelandese – 1451 contagi, 1036 guariti – è quasi piatta, il 27 aprile comincia la parziale, cauta, apertura. La Ardern ha nel frattempo presentato in Parlamento un pacchetto di stimoli da 6,5 miliardi di euro, composto di: sussidi e taglio delle imposte, un mix degno di una tradizione laburista e liberale di cui la Arden è un’esponente moderna, aggiornata (anche un po’ solitaria).
Si tratta di uno sforzo ingente per una economia che dipende dal turismo e che è per il 97 per cento composta di aziende che hanno meno di 20 dipendenti, ma il calcolo economico del governo è stato: se l’emergenza dura poco, riusciamo a riprenderci in fretta. Quindi l’obiettivo era quello di correre più veloce del virus, impresa che è riuscita davvero in pochissimi casi e che pare riuscita in Nuova Zelanda: il tasso di trasmissione del virus è allo 0,48 per cento, ben sotto la soglia considerata buona in Europa (la soglia è 1: un contagio per persona positiva). Ora comincia, come per tutti, la parte difficile: ripartire senza vanificare il sacrificio sostenuto. L’unità granitica attorno alla Ardern si sta infrangendo: l’opposizione sostiene che il lockdown è stato eccessivo, punitivo quasi, a due passi da lì c’è l’Australia che con misure ben meno restrittive è riuscita a contenere la pandemia in modo egregio.
La Ardern sa che questo è un altro «big moment» e va preso nel modo giusto ma intanto, mentre lei insiste sulla necessità di non cedere all’impazienza, torna in mente una frase che disse qualche tempo fa: «Una delle critiche che più mi è stata fatta nel tempo è che non sono abbastanza aggressiva, non sono abbastanza assertiva, perché sono empatica e quindi fragile. Mi sono sempre ribellata a questa equazione. Mi rifiuto di credere che non si possa essere al tempo stesso compassionevoli e forti». E gentili, soprattutto.