Il bello e il brutto del calcio

/ 20.11.2017
di Aldo Cazzullo

Per gli italiani l’eliminazione dai Mondiali, la prima in sessant’anni, è stato uno shock collettivo. Già si calcola l’impatto negativo sul Pil e sul morale nazionali.

Tre fallimenti fanno una prova: l’Italia del calcio è in crisi, come e forse più del Paese che rappresenta. In Sud Africa gli azzurri furono eliminati in malo modo, in Brasile pure; in Russia se non altro non andranno a fare altre brutte figure.

Sovrapporre le vicende sportive a quelle generali può essere fuorviante: se il Mondiale dell’82 segnò davvero l’uscita da un periodo oscuro, quello del 2006 fu un lampo nel buio della depressione collettiva e del declino compiaciuto. Proprio ieri sono arrivati dati incoraggianti dall’Istat: l’economia si sta rimettendo in moto, sia pure più lentamente della media europea. Ma questo non ha cambiato l’umore medio degli italiani, prostrato da anni duri, senza che dallo sport nazionale venisse la consolazione di un riscatto.

La penosa serata di San Siro, e più in generale l’eclissi del calcio italiano, sono l’ennesimo indizio che nel Paese esistono almeno tre questioni aperte: il calo dell’attitudine al sacrificio; la lentezza del ricambio generazionale; e la mancanza di leadership.

Sul crollo delle vocazioni calcistiche e sportive si è detto molto. Introdurre una quota di italiani in campionato – almeno tre in campo per squadra – non sarebbe una cattiva idea. Non sarà colpa degli stranieri, che contribuiscono a rendere il nostro campionato tra i più combattuti e spettacolari d’Europa; ma se i giovani di talento non vengono mai messi alla prova, è difficile che possano crescere. L’importante è che siano disposti ad allenarsi con serietà, senza montarsi la testa al primo contratto milionario; a giudicare dalle immagini tv, i più impegnati sul lavoro negli ultimi tempi sono stati i parrucchieri di El Shaarawy e Bernardeschi, oltre ovviamente ai tatuatori.

Si è detto meno sulla selezione della classe dirigente, troppo spesso basata  sulla mediocrità; che non crea invidie e malumori, ma provoca un’inevitabile caduta della qualità. Non occorreva attendere la Svezia per scoprire che il duo Tavecchio&Ventura non è all’altezza della situazione, che Bonucci è un ottimo calciatore ma non ha la tenuta nervosa per essere un vero leader, che Buffon in questi anni è cresciuto molto come uomo e capitano ma da solo non può tenere una squadra, oltretutto dalla porta, quindi lontano dagli arbitri. Tavecchio aveva annunciato che avrebbe fatto la storia; è stato di parola, anche se non nel senso che sperava. Ventura ha rinunciato all’unico campione – Lorenzo Insigne – che in questi anni aveva maturato un’esperienza internazionale, compreso un gol al Bernabeu.

Il problema è che i leader latitano in ogni campo, non solo in quello da calcio. E un Paese che non sa darsi una classe dirigente, se non sull’onda del populismo e del pauperismo digitali, non va lontano nell’era del mondo – e dei campionati – globali.

Oggi gli italiani si sentono in colpa verso i loro figli: sta crescendo una generazione che non avrà il suo Mondiale.

C’è ancora qualche nonno che rammenta la vittoria del 1938. I padri talora rievocano la vergogna del 1966 – «È una Corea!» – e il riscatto incompiuto del 1970, con il colpo di testa di Pelé che salta una spanna sopra Burgnich e i sei minuti di Rivera. Per chi ha tra i 40 e i 50 anni il primo bel ricordo pubblico – dopo i Giochi insanguinati di Monaco, il caso Moro, la bomba alla stazione di Bologna – è il trionfo mondiale in Spagna: «El hombre de la cancha es Paolo Rossi (Italia)» era scritto sul tabellone del Camp Nou, in una Barcellona che si sentiva ancora l’avamposto della Spagna in Europa. Otto anni dopo abbiamo consolato i nostri fratelli minori incantati e illusi dalle notti magiche di Italia ’90, che è stato comunque un bel Mondiale; pure per Craxi e Andreotti, ignari che stava venendo giù tutto. Nel 2006 gli italiani hanno esultato per la quarta Coppa vinta in Germania, battendo i tedeschi a casa loro e poi i francesi in finale; il che ha sempre un sapore particolare.

Un bambino che era troppo piccolo per ricordarsi la notte dell’Olympiastadion (9 luglio 2006) ha degli Azzurri solo ricordi orribili. L’incresciosa eliminazione dal primo mondiale africano, per opera non di una grande ma della Slovacchia, con Buffon infortunato, Chiellini gatto di marmo, l’unico lampo di un gol incredibile e inutile di Quagliarella, Gattuso in lacrime negli spogliatoi: «Ci faranno cavalieri della vergogna». La spedizione se possibile peggiore in Brasile, con il ritiro nella zona più fresca e le partite in quella più torrida, l’illusione dei gol di Marchisio e Balotelli contro l’Inghilterra, l’umiliazione per mano della Costa Rica, il pasticcio con l’Uruguay, Prandelli che chiede scusa alla nazione, Buffon umiliato ma a ciglio asciutto. Le lacrime del capitano lunedì sera, con l’augurio al suo successore Donnarumma e il ringraziamento ai suoi difensori compreso Daniele De Rossi furibondo in panchina, resteranno un ricordo indelebile per la generazione che il suo Mondiale non l’ha ancora avuto.

È una generazione che forse ha giocato poco a pallone. Se si fatica a trovare talenti, non è solo per i troppi stranieri; è perché tanti ragazzi preferiscono giocare a calcio alla wii o alla playstation che sul campo, dove si fa molta più fatica. Chi emerge è già miliardario a 18 anni, oppure si perde nelle serie inferiori e finisce a fare il saluto romano a Marzabotto. I campioni se ne vanno e gli eredi non si trovano dietro l’angolo. Eppure è nei momenti peggiori che si gettano le basi per ricostruire. Il calcio è bello perché una partita non è finita finché non è davvero finita. Lo sport è la nostra infanzia, e quindi il nostro futuro.