Europa, metà degli anni 50. Economicamente il continente torna a respirare, ma sul piano politico l’aria irrita le corde vocali del dibattito civile. La tensione tra le potenze vincitrici è palpabile, da un lato gli Usa, dall’altra l’Urss: due modelli in competizione, che obbligano a schierarsi: o di qua o di là. Di qua il capitalismo, di là il comunismo. Nel 1955 Norberto Bobbio raccoglie in volume alcuni saggi sulla relazione tra la politica e la cultura, e li introduce con queste parole: «Se tutto il mondo fosse diviso, esattamente, in rossi e neri, mettendomi dalla parte dei neri sarei nemico dei rossi, mettendomi dalla parte dei rossi sarei nemico dei neri. Non potrei stare in alcun modo al di fuori degli uni e degli altri perché – questa è l’ipotesi – essi occupano tutto il territorio e non esiste spazio intermedio tra loro».
Sottrarsi alla tenaglia, sfuggire alla secca logica binaria imposta dalla guerra fredda diventa, nel medesimo anno, un imperativo anche per un altro intellettuale: Max Frisch, scrittore già affermato (ha 44 anni), di formazione architetto. Ai suoi occhi, la Svizzera langue, spiritualmente è un corpo morto, anemico. L’alta congiuntura l’ha inebetita: «ci siamo accontentati di condurre ovunque un commercio il più possibile vantaggioso, e avvertiamo un segreto disagio che nemmeno il più piacevole benessere riesce a scacciare. È il disagio di poter viaggiare per il mondo, certo, ma, in quanto svizzeri, di non appartenere realmente al mondo». Il disagio («Unbehagen», «malaise»): ecco il tarlo che rode la coscienza degli intellettuali critici, rendendoli inquieti, insoddisfatti, nervosi, insonni.
Per rinascere occorre dunque un’idea, una grande idea, ma quale? Frisch ne parla con gli amici Lucius Burkhardt, Markus Kutter e con un paio di architetti. Il risultato della riflessione è un pamphlet, una riflessione che comprende anche un invito all’azione. Il titolo Achtung: die Schweiz! (Attenzione: la Svizzera!) suona perentorio come un cartello stradale segnalante un incrocio pericoloso.
Il progetto che Frisch e i suoi amici perseguono non intende ricalcare gli schemi di un’esposizione nazionale. L’ultima, la «Landi» tenutasi a Zurigo nel 1939, è stata grandiosa, encomiabile, simbolo di resistenza nei mesi in cui l’Europa precipitava nell’abisso dello scontro armato. Lo scrittore rende omaggio a quest’opera, portata a termine sotto un cielo cupo, ma subito soggiunge che bisogna andare oltre. Occorre fondare una città, una nuova città, né troppo piccola né troppo grande; un insediamento a misura d’uomo in cui sia possibile vivere e lavorare evitando i guasti che l’urbanizzazione postbellica ha generato: traffico, cemento, nevrosi degli abitanti, inquinamento, rumore.
Frisch indica la data (il 1964) e anche la possibile area: la città potrebbe sorgere ad esempio «nel Seeland, nel triangolo tra il Lago di Bienne, quello di Morat e quello di Neuchâtel, nelle vicinanze del confine linguistico, in una zona sull’acqua, collocata in uno dei più ricchi territori rurali della Svizzera, nei pressi di industrie piccole e di media grandezza». In effetti la nuova expo, la quinta, si tenne nel 1964, a Losanna, e la regione dei tre laghi divenne l’epicentro della sesta, l’Expo. 02. Preveggenza di Frisch… Tuttavia, è bene ripetere, non era questo il modello che lui aveva in mente, bensì un esperimento urbano che intendeva recuperare stimoli e suggerimenti già presenti in un’ampia letteratura sull’utopia, da Bacone, Moro e Campanella fino ai progetti di Le Corbusier e Oscar Niemeyer. D’altronde villaggi su base cooperativa erano già stati concepiti e realizzati all’indomani della grande guerra del ’14-’18, come a Freidorf nel comune di Muttenz.
La città-giardino di Frisch e dei suoi amici ebbe sulle prime una certa eco nell’arena pubblica, ma poi la proposta finì nelle secche, bollata come chimera partorita dalla fervida immaginazione di un manipolo d’intellettuali sprovvisti di senso pratico. La parola chiave del ragionamento, ossia «pianificazione», ricordava troppo la strada imboccata dagli economisti e dagli urbanisti di scuola sovietica.
Ormai a oltre sessant’anni dalla sua stesura, vale comunque la pena di rileggere questo manifesto-appello, preziosa testimonianza di una generazione che riteneva la difesa spirituale ereditata dagli anni 30 una camicia di forza mentale. Lo si può fare oggi nella traduzione italiana curata da Mattia Mantovani per l’editore Meltemi di Milano.